Fra il 1977 e il 1980, nel corso di scavi nella necropoli di Aigaì, antica capitale del Regno di Macedonia e luogo di sepoltura dei membri della monarchia e dell’aristocrazia anche dopo il trasferimento della capitale a Pèlla (fine V – inizi IV secolo a. C.), nei pressi del villaggio moderno di Vergìna, l’archeologo greco Manòlis Andronìkos compì una serie di eccezionali scoperte nell’area del cosiddetto “Grande Tumulo”, una modesta altura di origine artificiale, in stretto rapporto visuale con i poco distanti resti del grandioso palazzo reale.
Quattro tombe principesche di tipo “macedone”, cioè a camera ipogea, con facciata architettonica monumentale e volta a botte, furono riportate alla luce: una di esse, la Tomba II , come la III miracolosamente intatta, sarebbe stata identificata con certezza come la sepoltura di Filippo II di Macedonia, l’uomo che pose fine all’indipendenza delle città – stato elleniche, padre del celebre Alessandro Magno.
Splendidi afreschi, infatti, rivestivano tre delle pareti interne della camera: sulla parete nord è conservato uno dei più antichi e rivelanti documenti della grande pittura parietale greca, un “Ratto di Persefone”, attribuito da Andronikos al celebre Nikòmachos (prima metà del Iv secolo a. C.). lo studioso ha anche supposto che questa fosse la tomba del re Aimnta III, il padre di Filippo II.
La scoperta più importante, tuttavia, fu quella della Tomba II, una struttura rientrante in una tipologia architettonica funeraria attestata nella regione da una settantina di esempi: è, infatti, una delle più grandi (metri 9,10 x 5,60 x 5,30) tombe “macedoni” monumentali. Le pareti furono realizzate con grandi blocchi di “pòros” e accuratamente intonacate. La pianta prevedeva due camere poste lungo l’asse longitudinale, dove fu eretta una facciata architettonica monumentale che creava l’illusione di un portico cieco, con ingresso a due battenti marmorei torchiati in bronzo e inquadrato da eleganti colonne doriche. Sopra queste ultime furono poggiati un epistilio colorato e un fregio zooforo dipinto, raffigurante una battuta di caccia con uomini a piedi e a cavallo (uno intenzionalmente individualizzato) e animali selvatici in una foresta invernale – opera di altissimo livello artistico e di assoluta novità tematica.
I due vani furono coperti da un’unica volta a botte, importantissima novità strutturale introdotta dagli architetti macedoni proprio nel IV secolo a. C. Gli studi di M. Andronìkos hanno infatti chiarito che il primo esempio di volta a botte in una tomba greca è proprio quello della Tomba II di Vergina, databile ben prima della fine del IV secolo a. C., tradizionalmente indicata dagli studiosi per giustificare la teoria della provenienza di questa tipologia tombale dall’Oriente, in seguito alla spedizione di Alessandro Magno, come se i Greci non avessero avuto largamente occasione, nella loro storia, di assorbire prima della formazione dell’Impero Macedone modelli architettonici orientali o, ancor più probabilmente, non fossero stati in grado di elaborare le strutture dell’arco e della volta a botte e la decorazione pittorica funeraria.
Nel cuore del IV secolo a. C., dunque, gli architetti macedoni, dopo aver incrementato le dimensioni delle tombe a cista verso forme monumentali, avrebbero adottato la copertura a volta per fronteggiare i problemi statici di strutture ormai imponenti, completate da facciate scolpite e dipinte. La Tomba II di Vergina custodiva un ricchissimo corredo. Fin da una prima analisi degli oggetti che lo costituivano, Andronìkos ritenne di avere scoperto la sepoltura reale di Filippo II, assassinato nel teatro di Aigaì nel 336 a . C.: l’eccezionale abbondanza di suppellettile aurea, argentea e bronzea – tutta databile fra 350 e 330 a . C. e comprendente una custodia di faretra in argento dorato, corone auree (una a foglie di quercia), diademi in argento massiccio dorato, placchette, un pettorale, borchie auree recanti il sole “stellato” macedone, i resti di una corazza in cuoio e stoffa, guarnita di placche e fasce rivestite d’oro, uno scudo da parata paragonabile a quello dell’omerico Achille, per varietà di scene e di temi – era davvero degna di un sovrano di primaria storica.
Un importante indizio fu offerto dal ritrovamento di cinque testine miniaturistiche in avorio che probabilmente decoravano un letto e raffiguravano personaggio della famiglia reale dell’età di Filippo II e Alessandro Magno; i cinque manufatti furono posti immediatamente in relazione iconografica diretta con i ritratti degli Argeadi dallo scultore Leochàres per il Philippeìon di Olimpia, il tempo fatto erigere ex voto dallo stesso Filippo II nel grande panellenico, dopo la vittoria nella battaglia di Cheronea contro i Greci (338 a . C.).
Come se non bastasse, la tomba conteneva, entro due semplici casse litiche, poste una nella camera funeraria vera e propria, l’altra nel vestibolo, due sfolgoranti urne – ossario a cassetta, in oro lavorato a sbalzo e con incrostazioni. Tenendo presenti i dati offerti dalle fonti storiche, l’Andronìkos formulò l’ipotesi che i resti cremati dei defunti in esse rinvenuti, appartenenti a un uomo e a una donna e avvolti in una regale veste tinta di porpora e blu e ricamata in oro di cui restano delicati frammenti, appartenessero a Filippo II e alla sua seconda moglie, Cleopatra.
L’ipotesi destò enorme interesse in tutto il mondo scientifico, ma anche alcune perplessità: diversi studiosi concordavano sull’appartenenza di un simile corredo a personaggi della famiglia reale macedone, ma ritenevano più probabile che i due defunti fossero Filippo III Arrideo, fratellastro di Alessandro Magno, succeduto a questi nel 323 a . C., e sua moglie Euridice, entrambi fatti assassinare da Olimpiade, madre del Grande, e sepolti con onori regali dal potente Cassandro, impadronitosi della corona macedone, nel 317 a . C.
Continua.... (seconda parte)
1 commento:
da piccola volevo fare l'archeologa. Poi da grande mi sono "limitata" a laurearmi in filologia. Tutto quello che concerne scritture e rinvenimenti vari mi appassiona in maniera incredibile!
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