Sabratha era, insieme a Leptis Magna e a Oea, una delle tre città che diedero nome alla Tripolitania. La sua storia è simile a quella degli altri due centri: prima emporio fenicio, passato poi sotto il controllo cartaginese, entrò a far parte della provincia dell’Africa proconsularis nel 46 a . C., acquistando, durante l’età imperiale, il rango di municipio e infine di colonia.
Dopo aver raggiunto il suo apogeo nel periodo degli Antonimi e dei Severi, cominciò a decadere rapidamente in età tardoantica, a causa delle invasioni degli Austuriani e dei Vandali. Dopo una parziale ripresa, dovuta alla riconquista bizantina, l’arrivo degli Arabi ne provocò il definitivo abbandono.
Il centro della vita civica era naturalmente il foro, una piazza rettangolare circondata da portici, intorno alla quale erano disposti gli edifici in cui si svolgevano le principali attività pubbliche. Il complesso è noto essenzialmente nella veste che assunse nel corso del II secolo d. C., in seguito a importanti lavori di rifacimento, che si sovrapposero ai restauri già effettuati per riparare ai danni di un terremoto avvenuto tra il 65 e il 70 d. C.
Sul lato corto occidentale sorgeva il Capitolium, aperto verso la piazza con una larga piattaforma bordata da due scalinate laterali; sul lato opposto, al centro di una corte porticata su tre lati, vi era un altro tempio, che, nella sua dedica a Liber Pater, corrispettivo romano di Shadrapa, manteneva vivo i legame con l’antica religiosità indigena.
La serie degli edifici civili era completata da due impianti che si trovavano dietro i portici dei lati lunghi dell’area forense: a nord la curia, costituita da una sala rettangolare collegata a uno spazio scoperto, e a sud la basilica.
La pianta di quest’ultima, a tre navate, include sul lato meridionale un ambiente che doveva ospitare il “tribunal” del magistrato, ma nel quale era stato forse adattato anche un sacello per il culto imperiale. In età tardoantica la basilica sarà trasformata in chiesa cristiana.
La piazza porticata che funge da sontuosa cornice di un edificio religioso rappresenta uno schema ben noto e questa soluzione è attestata a Sabratha, oltre che dal tempio di Liber Pater, da altri impianti sacrali, perlopiù collocati in prossimità del foro.
A oriente della basilica si apriva, infatti, una piccola area scoperta, alla quale erano collegati due complessi sacri, entrambi di età antonina, che presentavano appunto questa forma: uno era dedicato a Marco Aurelio e LucioVero, l’altro a una divinità sconosciuta. In corrispondenza dell’angolo nord – occidentale del foro era orlato da portici anche un altro tempio, in cui era venerato il dio Serapide.
Più lontano, sulla riva del mare, una corte porticata sui quattro lati racchiudeva il tempio di Iside, al quale, essendo posto a un livello più basso, si accedeva per mezzo di una scalinata. Qui è stata scoperta una cripta sotterranea, in cui probabilmente avevano luogo le cerimonie mistiche della dea, insieme ad altri vani sul lato posteriore del complesso, forse dedicati a divinità minori.
Il monumento più importante da Sabratha è senza dubbio il teatro: datato tra la fine del II e l’inizio del III secolo d. C., è uno degli esempi più impressionanti del genere.
La cavea, percorsa alla base da un doppio corridoio, era sostenuta da tre ordini sovrapposti di arcate, con un portico che la coronava. Il magnifico edificio scenico, ricostruito dagli archeologi italiani che hanno operato sul sito, mostra ancora oggi un fastoso apparato architettonico costituito da tre ordini sovrapposti di colonne marmoree, articolate in un sistema di rientranze e sporgenze caratteristico delle “frontes scaenae” dell’epoca. Di marmo era anche il rivestimento dei muri retrostanti, ora scomparso.
Assai interessante si presenta inoltre la fronte del palcoscenico (in latino pulpitum), mossa da avancorpi e nicchie alternativamente rettangolari e semicircolari, e decorata da una serie di pregevoli scene a rilievo. Nella nicchia centrale è raffigurato un sacrificio compiuto da Settimio Severo, forse accompagnato dal figlio Caracolla, alla presenza delle personificazioni delle città di Roma e di Sabratha nell’atto di stringersi le mani.
Nelle altre due nicchie semicircolari compaiono le nove Muse, a sinistra, e una composizione che rappresenta il giudizio di Pardie, insieme alle tre Grazie, a destra.
Gli avancorpi e le nicchie rettangolari sono ornate da altre figure, non sempre di interpretazione sicura, nelle quali si possono comunque riconoscere soggetti pertinenti alla natura dell’edificio quali divinità, maschere teatrali e attori impegnati nelle recitazione.
Caratteristico è anche il profilo, sagomato come un delfino, di ciascuna estremità del recinto che delimitava la “proedria”, cioè l’area della cavea riservata ai notabili locali. L’anfiteatro, realizzato con ogni probabilità nello stesso periodo del teatro presso il limite orientale della città, costituisce anch’esso una delle maggiori attrattive per i visitatori delle rovine di Sabratha.
Ricavato in parte nella roccia, il monumento conserva ancora significativi resti delle gradinate e delle arcate originarie. Il piano dell’arena, in antico coperto da un tavolato ligneo cosparso di sabbia, è profondamente tagliato da due corridoi disposti a croce, utilizzati dal personale addetto ai giochi come passaggi e come depositi di materiale.
Anche l’architettura domestica è bene attestata, più di quanto non accada solitamente nelle città africane. Le case, spesso dotate di portici che sostenevano i piani superiori, ricevevano perlopiù una copertura piana, come si può giudicare dalla scarsità di tegole rinvenute. In alcuni casi sono stati individuati ambienti sotterranei, dove era possibile trovare un poco di frescura nelle giornate più calde.
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