lunedì 7 febbraio 2011

La statua di Zeus a Olimpia (parte I)

Tutti conoscono i giochi olimpici, ma non molti sanno che la statua del dio in onore del quale si svolgevano nei tempi antichi era anche una delle Sette Meraviglie del Mondo. Olimpia era un luogo sacro: il tempio e l’altare di Zeus, il padre degli dèi, richiamavano pellegrini da ogni angolo del mondo greco e la celebrazione delle gare atletiche costituiva una parte notevole del rituale. Le Olimpiadi furono riprese nel 1896 e vincerle è considerato da molti quasi una vittoria politica, proprio come nell’antica Grecia. Gli atleti si riunivano ad Olimpia da ogni angolo del mondo allora conosciuto, e quella piccola e remota località, nella parte sudoccidentale della Grecia, diveniva centro dell’attenzione mondiale.



I partecipanti dovevano essere tutti di sangue greco, perché originariamente i giochi erano un fatto religioso: i «barbari», i non Greci, non potevano venerare Zeus nel suo santuario né potevano prendere parte ai giochi. Gli araldi si spingevano fino ai piú lontani avamposti della civiltà greca per invitare i giovani a intervenire. Dalla Sicilia e da Cirene, dalla Siria e dall’Egitto, dalla Macedonia e dall’Asia, affluivano ad Olimpia, e durante lo svolgimento delle gare la tradizione imponeva la cessazione di ogni ostilità in atto fra le città greche. La parte meridionale della Grecia è conosciuta col collegarsi con l’istituzione dei giochi olimpici. Nella parte occidentale del Peloponneso, la città di Pisa costituiva un piccolo regno governato, si diceva, dal re Enomao; e nel suo territorio si trovava Olimpia, una fertile area consacrata a Zeus re degli dèi e alla Madre Terra.
Innumerevoli fedeli avevano l’abitudine di recarvisi a pregare per un buon raccolto. Secondo una profezia Enomao sarebbe stato ucciso dal futuro genero, il marito di sua figlia Ippodamia; cosa che lo mise in grande agitazione quando ella fu in età di sposarsi. Il re impose che ogni pretendente alla mano della figlia si misurasse con lui in una corsa con i carri da Olimpia fino al tempio del dio del mare Posidone, a Istmia vicino a Corinto, un’ottantina di miglia a nordest. Al giovane veniva concesso un netto vantaggio, ma l’accordo prevedeva che, in caso di vittoria, avrebbe ottenuto Ippodamia e il trono di Pisa, se però la vittoria toccava al re, il pretendente doveva morire. Tredici principi si presentarono e tredici furono messi a morte. Finché si fece avanti il giovane Pelope. Alcuni dicono che intervenne Posidone stesso a far schiantare il carro di Enomao, altri narrano che Pelope corruppe l’auriga di lui convincendolo a togliere il cavicchio di una ruota e a sostituirlo con cera. Comunque siano andate le cose, Enomao si schiantò e morí, Pelope sposò Ippodamia e conquistò il trono.


La corsa dei carri, che si teneva ad Olimpia con altre gare, era ritenuta da molti greci una commemorazione della vittoria di Pelope. Secondo altri, fu in realtà Eracle, figlio di Zeus ed eroe di tutti coloro che aspirano ad avere vigore e forza, a fondare i giochi in onore di suo padre. Oggi sappiamo che spesso le gare erano collegate a cerimonie funebri; come una veglia irlandese, servivano a sciogliere l’affanno di chi era in lutto. In Olimpia probabilmente ebbero inizio come rito commemorativo tenuto dai greci della zona attorno alla tomba di Pelope, di colui che aveva goduto del favore degli dèi. La tomba, o meglio il suo cenotafio, era il punto centrale del complesso degli edifici sacri. Col tempo questa sottolineatura scemò: i giochi vennero celebrati sempre piú in onore di Zeus e la parte avuta da Pelope impallidí.
I Greci avevano un concetto molto personale dei loro dèi, tanto che l’intervento divino nelle vicende umane era cosa di ogni giorno. Si riteneva che le divinità risiedessero sulla cima del monte Olimpo, in Tessaglia, a circa 175 miglia da Olimpia. Zeus era il loro sovrano e, come tale, riuniva in sé l’onnipotenza del grande dio della natura con le debolezze di un re mortale, e in piú le qualità di un padre giusto e buono. Da un parte era Zeus Tonante, che brandiva tuoni e fulmini; dall’altra la debolezza per l’altro sesso provocava in sua moglie Era scoppi di furore; e ancora, come dio dell’ospitalità, gli erano dovute offerte durante i banchetti. Olimpia, il cui nome riecheggia quello del monte Olimpo, era la seconda dimora di Zeus e divenne, in seguito alla proclamazione dei giochi, il centro del suo culto per oltre mille anni.
Oggi i boschetti del sacro recinto di Zeus nella fertile vallata del fiume Alfeo, là dove si unisce al Cladeo, sono il ritrovo di pellegrini di un’epoca diversa. Arrivano a frotte i turisti per ammirare i resti di questo luogo grande e sacro. È naturale che gli archeologi abbiano volto tutti i loro sforzi a riscoprire la storia passata del santuario. Fin dal 1829 gruppi di archeologi francesi e tedeschi hanno scoperto un complicato intreccio di monumenti religiosi e di edifici capaci di soddisfare tutte le richieste degli atleti che ogni quattro anni si recavano colà per i giochi. Il ginnasio e lo stadio si affiancano ai templi e agli ex voto eretti in ringraziamento dai vincitori o da chi li patrocinava.



Olimpia non era una città, un agglomerato urbano, ma un centro intorno a cui crescevano edifici adibiti alle necessità di molti pellegrini che vi convenivano per motivi religiosi o per partecipare ai giochi: era una via di mezzo fra la Mecca, il grande centro musulmano, e Wembley, famoso punto d’incontro per lo sport. Come accade ad ogni luogo dove l’attività umana sia intensa, edifici di epoche diverse sorsero anche fuori dalla cerchia iniziale, rispecchiando la crescente ascesa del santuario.
I Greci ritenevano che i giochi fossero cominciati nel 776 a. C., e posero questa data a base del conteggio degli anni, come oggi li contiamo dalla nascita di Cristo; tuttavia gli archeologi odierni hanno scoperto che il culto di Zeus ad Olimpia aveva origini molto piú antiche. Le prime costruzioni erano state di legno e di mattoni di fango, ma con lo sviluppo della civiltà e col deterioramento del materiale primitivo, esse furono sostituite da piú imponenti opere in pietra. La piú splendida fra queste fu il tempio dedicato allo stesso Zeus.
La grande struttura fu elevata tra il 466 e il 456 a. C., l’epoca in cui nuove tecniche e nuove prospettive annunciavano l’età della Grecia classica. L’architetto fu Libone, della vicina città di Elide, che per la costruzione scelse una strana pietra locale, un conglomerato di conchiglie fossili, forse un materiale un po’ modesto per le raffinate modanature architettoniche, ma sublimemente naturale per onorare Zeus, il dio della natura. Lo stile, molto diffuso allora nel sud della Grecia e simile sotto molti aspetti a quello del piú famoso Partenone di Atene, era assai austero, secondo il cosiddetto stile dorico, ma non greve come quello troppo decorato del santuario di Diana a Efeso, un’altra delle Sette Meraviglie.



Il tempio era il sacello del dio, non creato per accogliere una comunità. Il sacrificio, il momento principale del culto collettivo, avveniva presso il grande altare di Zeus, fuori dal tempio. Nel giorno mediano dei giochi olimpici cento buoi venivano abbattuti e bruciati in offerta a Zeus. Le ceneri, miste all’acqua dell’Alfeo, erano poste sull’altare in un ammasso compatto che, secolo dopo secolo, assunse proporzioni enormi. Il tempio fu costruito per proteggere dalle intemperie la statua sacra al culto. Questa, nella parte piú interna del santuario, il sancta sanctorum, suggeriva ai fedeli la presenza dello stesso Zeus; e col passar del tempo Olimpia fu meta di visite per la sua magnificenza e per l’antichità piú che per l’aspetto sacro. Come accade oggi per molte cattedrali, venne ad assumere a poco a poco l’atmosfera di un museo.



Per molti anni, dopo che il nuovo tempio fu terminato, vi si conservò probabilmente un antico e venerato oggetto di culto, un blocco informe di pietra o di legno, tolto a un santuario precedente, piú piccolo; ma il gusto corrente nel V secolo a. C. richiedeva un’immagine molto piú grandiosa. Il consiglio del tempio sembra aver cercato a lungo uno scultore in grado di creare un’opera di sufficiente maestosità per raffigurare l’ideale del re degli dèi; e alla fine si decise di affidare l’arduo compito a Fidia, figlio di Carmide, ateniese.



Fidia aveva già scolpito due poderose statue per l’acropoli della sua città, destinate a rimanere per secoli fra i piú splendidi prodotti della scultura dell’epoca classica. Una è una gigantesca figura della dea Atena, esposta all’aperto, di circa dieci metri d’altezza; si diceva che il suo elmo d’oro poteva essere scorto dai naviganti in alto mare. L’altra era la stupenda statua in oro e avorio dedicata al culto di Atena per il nuovo tempio sull’Acropoli, il Partenone. Su disegno di Fidia furono anche eseguite le sculture architettoniche che decoravano il Partenone all’esterno, e non è escluso che egli stesso vi abbia lavorato come scultore. Molte di esse si trovano ora al British Museum e offrono l’unico esempio superstite della grandezza del genio di Fidia e del suo stile.


Il geografo Strabone, agli inizi del I secolo d. C., scriveva:
La statua, in avorio, è di tale grandezza che, sebbene il tempio sia grandissimo, pare che l’artista abbia tenuto poco conto delle proporzioni. Ha infatti rappresentato il dio seduto, che quasi tocca il soffitto con la testa, tanto da dare l’impressione che se si alza in piedi scoperchia il tempio.
(Strabone, Geografia VIII 3.30).
Secondo il pensiero di Strabone, la statua era troppo grande per inserirsi comodamente nel complesso dell’edificio.
Da una poesia di Callimaco (305-240 a. C.), scritta, però, circa duecento anni dopo, conosciamo approssimativamente le misure del monumento. La grandezza della base può anche essere misurata dallo scavo nel pavimento del tempio: il basamento era largo 6,65 metri, profondo circa 10 e alto piú di 1 metro. La statua vera e propria era alta 13 metri, cioè quanto una casa di tre piani, figura davvero gigantesca, che riempiva la parte occidentale in fondo al tempio e imponeva la sua presenza in tutto il santuario.
Per una dettagliata descrizione di essa possiamo ricorrere a Pausania, uno scrittore greco del II secolo d. C., che visitò il Peloponneso, descrivendo monumenti ed edifici delle città in cui sostava.
Pausania descrive cosí la statua di Zeus:
Sul capo è posata un corona fatta a somiglianza di rami d’olivo. Nella mano destra regge una Vittoria anch’essa d’avorio e d’oro […]. Nella sinistra invece il dio ha uno scettro ornato di ogni genere di metalli, e l’uccello appollaiato sullo scettro è l’aquila. D’oro sono anche i sandali del dio e cosí pure il manto. Sul manto sono istoriate figure di animali e il fiore del giglio. Il trono è variamente ornato d’oro e di gemme nonché di ebano e d’avorio.
(Pausania, Periegesi V 11.1).
Nel 174 d. C. un edificio fuori dal recinto del santuario e sul suo lato occidentale fu indicato a Pausania come la bottega di Fidia, quella dov’era nata la grande statua. Gli scavi compiuti nel 1958 dimostrarono inequivocabilmente che l’informatore di Pausania diceva la verità. Furono trovati due depositi di macerie, veri mucchi di detriti eliminati da quell’edificio, e inoltre attrezzi adatti per scolpire, pezzi di scarti d’avorio, frammenti di vetro e di metallo, e perfino calchi di terracotta usati per i drappeggi. I detriti potevano essere datati circa a poco dopo il 43o a. C. Non vi possono essere dubbi che quel materiale proveniva dalla bottega dove si stava creando una statua «criselefantina», cioè d’oro e d’avorio, e che questa era la statua di Zeus opera di Fidia. A ulteriore conferma, fu anche trovata la base di un bricco rotto, iscritto in chiare lettere greche del V secolo a. C.: «Appartengo a Fidia».
La statua non poté essere completata in questa bottega e poi trasportata nel tempio, sebbene gli archeologi dapprima abbiano immaginato che le cose stessero cosí: il pavimento del laboratorio non ne avrebbe sopportato il peso enorme. Enorme dev’essere stato anche il problema di scomporre e trasportare una struttura cosí complessa. I vari pezzi furono forse studiati e rifiniti nella bottega, poi messi insieme nel tempio. I calchi dimostrano quanto sottili dovessero essere molte delle lamine d’oro; ciò nonostante, fu esercitata una minuziosa cura del particolare, quale caratterizza l’opera di Fidia nel Partenone dell’acropoli d’Atene.
Pausania fu un viaggiatore entusiasta, che divorò con gli occhi i dettagli del capolavoro di Fidia e fedelmente tramandò per noi le sue annotazioni.  Figurine di Vittorie alate, messe schiena contro schiena, decoravano le gambe del trono, e «fanciulli tebani stretti fra gli artigli da sfingi» erano collocati sopra i due braccioli frontali. La sfinge, un mostro con la testa di donna, il corpo di leone e le ali d’aquila, soleva uccidere i giovani tebani incapaci di risolvere l’enigma:
«Qual è la creatura che può avere due, tre, quattro gambe, e piú gambe ha, piú debole è?»
Un esame attento della statua di Zeus riprodotta su una moneta mostra che il braccio del dio era sorretto da una sfinge accucciata, con le ali proprio sotto il gomito di Zeus. Un’idea piú nitida si ha osservando un gruppo statuario, scoperto a Efeso, con un giovane afferrato dalla sfinge proprio come deve averlo scolpito Fidia.
Sotto la sfinge erano raffigurati Apollo e Artemide intenti a sterminare con le frecce Niobe e i suoi figli. Niobe si era vantata di essere piú prolifica di Latona, madre di Artemide e Apollo, e così pagò l’eccesso d’orgoglio.



Questa scena era rappresentata sui fianchi del trono. Ne rimane traccia in un vaso a figure rosse proveniente da Baski nella Russia meridionale.Altre imitazioni si riscontrano in numerosi vasi e bassorilievi. Apollo e Artemide erano collocati frontalmente, ai due fianchi del trono, in atto di colpire i figli di Niobe, raffigurati in posizioni contorte d’agonia, secondo i modi correnti del V secolo.

1 commento:

Alex Blogspot ha detto...

Ciao, complimenti per il blog. Adoro la storia ed è un piacere leggere questo piccolo spazio che se ne occupa :-)

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