- Teodoro *
Ho letto del presbitero Teodoro “Il libro di san Dionigi è autentico”. In questo scritto venivano confutate quattro obiezioni. Secondo la prima di esse, se il libro di Dionigi fosse autentico qualcuno dei Padri vissuti dopo di lui non avrebbe mancato di citarne passi e detti. Seconda obiezione: Eusebio, discepolo di Panfilo, che ha curato un inventario delle opere scritte dai nostri santi Padri, non ha fatto alcuna menzione del libro di Dionigi. Terza obiezione: come è possibile che questo libro passi in rassegna dettagliatamente tradizioni che sono venute crescendo all’interno della Chiesa in modo graduale e in un lungo arco di tempo? Il grande Dionigi infatti – come risulta chiaro dagli Atti – era un contemporaneo degli Apostoli, mentre il libro contiene un elenco di tradizioni che si sono sviluppate quasi tutte all’interno della Chiesa in modo graduale e posteriormente a Dionigi. Non è di conseguenza credibile – si dice – anzi è davvero assurdo pensare che Dionigi abbia trattato eventi che hanno interessato la Chiesa solo molto tempo dopo la sua morte. Quarta obiezione: come può questo libro menzionare la lettera di Ignazio, l’ispirato da Dio? Dionigi, infatti, fiorì al tempo degli Apostoli, mentre Ignazio affrontò la prova del martirio prima di morire.
Teodoro dunque, cimentandosi nella confutazione di queste quattro obiezioni, consolida – per quanto gli è possibile – la tesi dell’autenticità del libro del grande Dionigi.
* Il libro di questo Teodoro, scrittore vissuto presubilmente nel VI secolo, è perduto. Si ritiene che l’autore si proponesse di combattere lo scetticismo di Spazio di Efeso, uno dei pochissimi che mettevano in dubbio l’autenticità delle opere attribuite a Dionigi l’Areopagita. Questi tratti di teologia mistica, una sintesi di neoplatonismo e pensiero cristiano elaborata da un siriano intorno al 500 d. C., godettero di un’immensa autorità fino al Quattrocento, quando Lorenzo Valla si pronunziò contro la loro autenticità. Si tratta del più clamoroso esempio di falso letterario riuscito in tutta la storia culturale dell’Europa.
8. Origene *
Ho letto il trattato “Sui principi” di Origene, in quattro libri, il primo dei quali ha come tema il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. In esso l’autore si abbandona a un gran numero di affermazioni blasfeme, sostenendo che il Figlio è stato creato dal Padre e che lo Spirito Santo è stato creato dal Figlio, ed ancora che il Padre permea tutti quanti esseri, il Figlio solamente quelli dotati di ragione e lo Spirito solo quelli che sono stati salvati. Ma vi sono altre osservazioni assurde e traboccanti di empietà: Origene farnetica infatti di metempsicosi, di astri forniti di anima e di altri argomenti del genere. Il suo primo libro è quindi una serie di fantasticherie sul Padre e (come lui dice) sul Cristo e sullo Spirito Santo, nonché sugli esseri dotati di ragione.
Il secondo libro tratta del mondo e delle creature che vi si trovano: l’autore inoltre afferma che uno solo è il Dio della Legge e dei Profeti, e che il Dio dell’Antico e del Nuovo Testamento è lo stesso; parla del incarnazione del Salvatore e dice che in Mosè, negli altri Profeti e nei santi Apostoli vi era il medessimo Spirito; tratta ancora dell’anima, della resurrezione, del castigo e dei premi promessi.
Il terzo libro ha come tema il libero arbitrio, e il modo in cui il diavolo e le potenze avverse, secondo le Scritture, fanno guerra al genere umano; vi si legge inoltre che il mondo ha avuto una nascita e avrà una morte, perché è cominciato nel tempo.
Il quarto libro prende in esame la fine ultima. Origene asserisce inoltre che le Scritture sono ispirate da Dio e, per finire, indica come bisogna leggerle e intenderle.
*Origene (ca. 184 – 253), teologo famosissimo, direttore della celebre scuola catechetica di Alessandria, poi, dal 231, di quella (da lui stesso fondata) di Cesarea di Palestina, e autore di numerosi trattati e commenti. Di questi, molti sono andati perduti, perché Origene e i suoi seguaci vennero sospettati di eresia, soprattutto per aver propugnato alcuni concetti platonici; finirono per essere condannati da un concilio nel 552. l’opera qui recensita esiste soltanto, se si eccettua qualche frammento, nella versione latina di Rufino, tramandatoci in una trentina di manoscritti ed edita da K. Koetschau, Berlin, 1913.
26. Sinesio *
Ho letto del vescovo di Cirene – il suo nome è Sinesio – un’opera “Sulla Providenza”, una “Sul regno”, ed altre su altri argomenti. Il suo stile è elevato e magniloquente, e tende ad assumere una coloritura poetica.
Ho letto di lui anche diverse lettere, da cui stilano grazia e piacevolezza, unite a vigore e densità del pensiero.
In origine Sinesio era pagano ed era dedito agli studi filosofici. Si narra che, una volta convertitosi alla religione cristiana, ne accolse senza riserva tutti i principi, ma non era disposto ad accettare il concetto della resurrezione; sebbene avesse tale convincimento, fu ugualmente insignito della dignità episcopale, poiché – essendo sotto gli occhi di tutti le sue virtù e la sua purezza di vita – era chiaro che un uomo che conduceva un’esistenza come la sua sarebbe stato un giorno illuminato anche dalla luce della resurrezione. E tale speranza non andò delusa: dopo che fu eletto vescovo, infatti, anche il concetto di resurrezione divenne per lui – senza la minima difficoltà – un dogma di fede. Sinesio fu il vanto di Cirene quando Teofilo era vescovo di Alessandria (venne nominato vescovo di Tolemaide da Teofilo nel 410.).
* Le opere di Sinesio (ca. 365 – 414) sono tuttora oggetto di un vivo dibattito tra gli studiosi. Si tratta di appurare se, anche dopo la conversione al cristianesimo, Sinesio sia rimasto fedele ad alcuni elementi della filosofia neoplatonica.
36. Il “Libro del Cristiano” *
Ho letto un’opera intitolata “Libro del Cristiano”, un’interpretazione dell’”Ottateuco” dedicata a un certo Panfilo. L’autore era nel pieno della sua maturità negli anni in cui era imperatore dei romani Giustiano. L’opera prende le mosse dalla difesa di alcuni dogmi della Chiesa, sulla base – come sembra – di testimonianze tratte dalle Scritture.
Il nostro usa uno stile dimesso e non segue la sintassi corrente; inoltre, quanto egli espone risulta talora inverosimile sul piano storico, per cui è giusto vedere in lui un autore interessato più agli elementi favolosi che non alla verità dei fatti. Questi sono i dogmi che si impegna a difendere: il cielo non è sferico, e neppure la terra, ma il primo è simile a una stanza a volta, la seconda ha invece forma rettangolare; le estremità del cielo sono perfettamente connesse con quelle della terra; tutti gli astri si muovono e al loro moto sono preposti gli angeli; gli altri temi sono di questo tenore.
Ricorda appena il “Genesi” e l’”Esodo” in una sorta di digressione, mentre si dilunga sul tabernacolo, del quale fa una descrizione e un esame pressoché completi. Tratta anche rapidamente dei Profeti e quindi degli Apostoli. Afferma poi che la grandezza del sole equivale allo spazio intercorrente tra due paralleli e che gli angeli non stanno in cielo, ma si trovino solamente al di sotto del firmamento, in mezzo a noi; Cristo poi, quando lasciò la terra, salì a prendere dimora in una regione che sta tra il cielo e il firmamento, e questo spazio, e solo questo, costituisce il regno dei cieli. E continua con altre stranezze del genere.
L’autore dedica i primi sei libri a un certo Panfilo; dei sei che rimangono (l’opera, infatti, conta in tutto dodici libri), il settimo – che tratta dell’indissolubilità dei cieli – è dedicato ad Anastasio; l’ottavo, i cui temi sono il canto di Ezechia e il cammino retrogrado del sole,a Pietro: in questo libro egli afferma di avere scritto un commento al “Cantico dei cantici”. Gli ultimi quattro libri non furono da lui composti per alcun personaggio.
* la cosiddetta “Topografia cristiana” viene attribuita a Cosma Indicopleuste; il nome dell’autore compare in un solo dei tre manoscritti dell’opera a noi pervenuti ed è rimasto sconosciuto a Fozio. Cosma era un mercante che viaggiava nel Mar Rosso r in Etiopia; ciò che riferisce sull’India e sull’odierna Ceylon non dimostra in modo inequivocabile che egli avesse personalmente visitato tali paesi. I suoi viaggi risalgono al regno di Giustino (518 – 527), ma il libro fu scritto circa venticinque anni più tardi. L’autore mira a confutare le teorie tolemaiche in materia di geografia e astronomia; secondo lui la Bibbia è l’unica fonte della verità. I manoscritti sono corredati tutti e tre di miniature interessanti.
37. “Sulla politica” *
Ho letto un trattato “Sulla politica” in forma di dialogo, che introduce come l’interlocutori il patrizio Mena e il “referendario”** Tommaso. L’opera si articola in sei libri, nei quali viene presentata una forma di governo diversa rispetto a quelle teorizzate dagli antichi: essa viene chiamata “dicearchia”*** ; lo Stato delineato da Platone viene giustamente criticato.
Quanto al modello proposto dai due interlocutori, esso – a loro dire – deve contemperare i tre tipi di costituzione: monarchica, aristocratica e democratica; ciascuna di esse contribuisce con quanto ha di peculiare, portando così alla realizzazione di quella forma di governo che è veramente la migliore.
* frammenti dei libri IV e V di questo dialogo anonimo, databile ai primi decenni del VI secolo, sono stati recuperati grazie a un palinsesto, il Vaticano greco 1298.
** appellativo di un piccolo gruppo di funzionari nel Gabinetto dell’imperatore (ma vi erano dei “referendarii” anche al servizio del patriarca).
*** ossia: forma di governo fondata sulla giustizia.
40. Filostorgio *
Ho letto di Filostorgio, uomo di fede ariana, una sedicente “Storia ecclesiastica”: ciò che vi si narra è quasi sempre in contraddizione con qualunque altra storia della Chiesa. L’autore esalta tutti i seguaci dell’arianesimo e copre di contumelie gli ortodossi, sicché la sua opera – più che una storia – si rivela un encomio degli eretici e una pura e semplice denigrazione e condanna dell’ortodossia.
Sul piano dello stile Filostorgio è elegante e fa uso di termini poetici, ma senza esagerare e non senza grazia; anche il linguaggio figurato – con il suo carattere allusivo – produce una leggiadria unita al piacere: sennonché, tale linguaggio si fa talvolta troppo ardito e arzigogolato, e finisce per diventare insulso e inopportuno. La prosa del Nostro è ampollosa e variegata in misura a volte eccessiva, cosicché il lettore si trova invischiato in un’oscurità non sempre piacevole. In molti casi Filostorgio usa – in modo appropriato – un linguaggio sentenzioso.
L’opera inizia dal tempo in cui Ario si diede a diffondere la sua eresia e giunge fino alla revoca del bando contro Ezio, campione di empietà**. Questo Ezio venne deposto dal suo ministero dagli stessi compagni di eresia, poiché (come l’autore stesso – pur a malincuore – riferisce) era ben più ampio di loro, ma venne richiamato da Giuliano, campione di empietà, e da lui accolto con animo benevolo. La sua “Storia” – che consta di sei libri in un solo volume – giunge dunque fino a quel tempo.
Quest’autore è mendace e non si astiene neppure dal favoleggiare. Esalta soprattutto Ezio ed Eunomio per la loro dottrina, farneticando che costoro sono stati i soli capaci di restituire l’originaria purezza ai dogmi della fede, che con l’andar del tempo si erano inquinati; per le loro prodigiose imprese e per la condotta di vita celebra invece Eusebio di Nicomedia*** (che egli chiama anche il “Grande”), Teofilo l’Indiano e numerosi altri. Attacca poi più di ogni altro Acacio****, vescovo di Cesarea in Palestina, per la sua ineguagliabile abilità e la sua invincibile astuzia, grazie alle quali – afferma Filostorgio – ebbe la meglio su tutti: tanto su coloro che in apparenza condividevano il suo pensiero, ma gli erano in realtà ostili, quanto su coloro che professavano una fede opposta alla sua.
Avevo già letto questi sei libri quando – non molto tempo dopo – ne trovai altri sei in un nuovo volume, cosicché l’opera completa del Nostro viene a comprendere dodici libri, le lettere iniziali dei quali – poste l’una di seguito all’altra – formano il nome dell’autore: Filostorgio. Egli giunse fino all’epoca di Teodosio il Giovane, e si arresta al periodo in cui – morto Onorio – Teodosio affidò lo scettro di Roma a Valentiniano il Giovane, figlio di Placidia e Costanzo e nipote di Onorio*****.
Questo Filostorgio, sebbene fosse ferocemente avverso ai seguaci della vera fede, non si azzardò tuttavia ad attaccare Gregorio il Teologo******, ma prese atto – seppure a malincuore – della sua cultura; tento invece di screditare Basilio il Grande*******, ma – così facendo – finì per accrescerne la gloria, giacché fu costretto dall’evidenza stessa dei fatti a riconoscere la forza e la bellezza delle omelie da lui pronunciate di fronte al popolo; per contro, quello sciagurato definì Basilio un temerario, poiché – a suo dire – osò attaccare gli scritti di Eunomio senza avere la necessaria esperienza di polemista.
* Filostorgio – nato in Cappadocia, intorno al 368, scrisse una continuazione della “Storia ecclesiastica” di Eusebio, in cui narra gli avvenimenti fino all’anno 425. estratti dell’opera ci vengono tramandati in un codice oxoniense, il Barocciano 142; tali estratti – a quanto recita l’intestazione dello stesso codice – risalgono ad appunti redatti proprio da Fozio.
** Ezio (ca. 300- ca. 366), fautore dell’arianesimo, fu nominato vescovo nel 362.
*** Eusebio, vescovo di Nicodemia, morto nel 341/42.. Teofilo l’Indiano fu portato a Constatinopoli come ostaggio; Eusebio lo fece diacono, ed egli andò poi come missionario presso gli etiopi.
**** Acacio succedette a Eusebio nel 340.
***** Valentiniano III, che aveva allora (425) solo cinque anni.
****** Gregorio Nazianzeno, il più popolare di tutti i Padri della Chiesa greca.
******* san Basilio (330 – 379), vescovo di Cesarea nella Cappadocia dal 370.
59. Sinodo della Quercia *
Ho letto gli “Atti” del sinodo illegittimamente convocato contro san Giovanni Crisostomo. Ne furono promotori Teofilo vescovo di Alessandria, Acacio vescovo di Berea, Antioco vescovo di Tolemaide, Severiano vescovo di Gabala e Cirino vescovo di Calcedoni, gli uomini più ostili a Giovanni, che svolgevano contemporaneamente tutte le funzioni: erano giudici accusatori e testimoni. Gli “Atti” furono registrati in tredici volumi: i primi dodici contenevano le accuse contro il santo, il tredicesimo quelle rivolte contro Eraclide – designato vescovo di Efeso da Giovanni – di cui il sinodo non riuscì a decretare la deposizione, perché alcuni membri si opposero. L’accusatore di Eraclide si chiamava Macario ed era vescovo di Magnesia; nemico dichiarato e primo accusatore di san Giovanni era invece il suo diacono Giovanni. Questi imputava a Crisostomo di avere commesso un’ingiustizia nei suoi confronti, cacciandolo per aver percosso il proprio servo Eulalio. Seconda accusa: un monaco di nome Giovanni fu fatto battere, malmenare e gettare in catene insieme agli indemoniati – a suo dire – per ordine di Crisostomo. Terza accusa: Crisostomo vendette oggetti sacri in grande quantità. Quarta accusa: vendette i marmi che Nettario aveva tenuto in serbo per adornare la chiesa di Sant’Anastasia. Quinta accusa: ingiuriò gli ecclesiastici, definendoli privi d’onore, corrotti, intemperanti e gente da quattro soldi. Sesta accusa: andava dicendo che sant’Epifanio farneticava perché ispirato dal demonio. Settima accusa: ordì una macchinazione ai danni di Severiano, muovendo i decani contro di lui. Ottava accusa: compose un libro diffamatorio contro il clero. Nona accusa: convocato un concilio di tutto il clero, mise sotto accusa tre diaconi – Acacio, Edafio e Giovanni – incolpandoli di avergli rubato lo scapolario e negando che potessero averlo preso per qualche altro scopo. Decima accusa: nominò vescovo Antonino, sebbene fosse un profanatore di tombe di provata colpevolezza. Undicesima accusa: in occasione di una sollevazione militare denunziò – lui in persona – il dignitario imperiale Giovanni. Dodicesima accusa: non era solito pregare né mentre si dirigeva in chiesa né quando vi entrava. Tredicesima accusa: procedette all’ordinazione di diaconi e sacerdoti facendo a meno dell’altare. Quattordicesima accusa: consacrò quattro vescovi tutti in una volta. Quindicesima accusa: riceveva donne a tu per tu, cacciando tutti i presenti. Sedicesima accusa: fece vendere da Teodulo i beni lasciati in eredità da Tecla. Diciassettesima accusa: nessuno sapeva che fine avessero fatto le rendite della Chiesa. Diciottesima accusa: ordinò sacerdote Sarapione sebbene fosse sotto processo. Diciannovesima accusa: non si curò che membri della Chiesa universale – messi in prigione su suo ordine – fossero morti in carcere, né si preoccupò di tributare gli onori funebri alle loro salme. Ventesima accusa: oltraggiò il generabilissimo Acacio e non gli consentì di replicare. Ventunesima accusa: consegnò a Eutropio il sacerdote Porfirio perché fosse bandito. Ventiduesima accusa: consegnò – senza risparmiargli gravi maltrattamenti – anche il sacerdote Venerio. Ventitreesima accusa: faceva riscaldare l’acqua del bagno per sé solo, e, dopo che si era lavato, Sarapione vuotava la vasca, che nessun altro potesse usarla. Ventiquattresima accusa: ordinò molti senza testimoni. Venticinquesima accusa: prendeva i suoi pasti in solitudine, rimpinzandosi con la voracità di un Ciclope. Ventiseiesima accusa: esercitava contemporaneamente le funzioni di accusatore, testimone e giudice (ciò risultava evidente dai processi a carico dell’arcidiacono Martirio e – dicono – di Proeresio, vescovo di Licia). Ventisettesima accusa: sferrò un pugno a Memnone nella chiesa dei Santi Apostoli e gli diede la comunione mentre il sangue gli colava dalla bocca. Ventottesima accusa: sul suo trono si spogliava, si vestiva e mangiucchiava. Ventinovesima accusa: passava del denaro ai vescovi da lui nominati per continuare – tramite loro – a vessare il clero.
Questi erano i capi d’accusa contro il santo. Egli fu convocato quattro volte, ma non si presentò, rispondendo senza mezzi termini a chi lo citava in giudizio: “Se voi rimovete dal consesso dei giudici i miei nemici dichiarati, io sono disposto a presentarmi e a difendermi dalle accuse mosse contro di me; se invece non avete intenzione di farlo, potete mandarmi a chiamare quante volte vorrete e non ricaverete un bel nulla”.
I giudici esaminarono a loro discrezione il primo e il secondo capo d’imputazione, e presero poi a valutare i casi del vescovo Eraclide e di Palladio, vescovo di Elenopoli. Il monaco Giovanni, per parte sua, esibì un libello che il diacono Giovanni aveva citato come prova a carico di Crisostomo, accusò Eraclide di essere un origenista e aggiunse che costui, a Cesarea di Palestina, era stato colto sul fatto mentre cercava di rubare le vesti del diacono Aquilino: ed è un individuo del genere – concluse – che il vescovo Giovanni aveva scelto per il soglio di Efeso; sostenne inoltre – incolpandone ancora Crisostomo – di avere subito numerose angherie ad opera di Sarapione e da parte dello stesso Crisostomo a causa degli origenisti. Concluso l’esame di tali questioni, si passò a considerare il non capo d’accusa e poi il ventisettesimo.
Fu poi la volta del vescovo Isacco, che imputò a Eraclide di essere origenista e di non essere stato ammesso dal santissimo Epifanio a partecipare alle preghiere e ai pasti comuni. Lo stesso Isacco produsse anche un libello contenente le seguenti accuse a Crisostomo. In primo luogo – a proposito del più volte menzionato monaco Giovanni – vi si leggeva che costui era stato malmenato a causa degli origenisti e poi messo in catene. Seconda accusa: sant’Epifanio si era rifiutato di avere rapporti con lui a causa degli origenisti Ammonio, Eutimio, Eusebio, Eraclide e Palladio. Terza accusa: non conosce la carità verso gli ospiti, perché è sua abitudine prendere i pasti in solitudine. Quarta accusa: in chiesa parla di un “altare gremito di Erinni”. Quinta accusa: in chiesa proclama, con tono di vanto, “amo, solo folle”; sarebbe suo dovere chiarire chi siano le Erinni e che cosa significhi “amo, sono folle” perché la Chiesa non conosce tali parole. Sesta accusa: assicura l’impunità ai peccatori, ammaestrandoli così: ”Se tu tornì a peccare, tornì a pentirti e ogni volta che peccherai, vieni da me e io ti guarirò”. Settima accusa: in chiesa bestemmia, affermando che le preghiere di Cristo non furono esaudite perché Cristo non aveva pregato come doveva. Ottava accusa: sobilla il popolo alla rivolta contro il sinodo. Nona accusa: ha dato l’accoglienza a uomini pagani colpevoli di numerose azioni malvagie nei confronti dei cristiani, li tiene in chiesa e li protegge. Decima accusa:mette piede in province non di sua giurisdizione e vi ordina dei vescovi. Undicesima accusa: oltraggia i vescovi e li fa poi cacciare – così umiliati – dal suo palazzo. Dodicesima accusa: esercita sugli ecclesiastici prepotenze mai viste. Tredicesima accusa: si è impossessato con la violenza di depositi appartenenti ad altri. Quattordicesima accusa: celebra le ordinazioni senza riunioni collegiali e contro il parere del clero. Quindicesima accusa: ha dato accoglienza agli origenisti, mentre non ha restituito la libertà a quei membri della comunità ecclesiale che aveva fatto gettare in prigione, sebbene si fossero presentati a lui con lettere di raccomandazione; per di più, non si è dato la minima pena del fatto che fossero morti in carcere. Sedicesima accusa: ha nominato vescovi degli schiavi appartenenti ad altri, non ancora affrancati e per di più sotto accusa. Diciassettesima accusa: Isacco in persona ha subito numerose angherie da parte di Giovanni e dei suoi.
La prima di queste accuse fu tralasciata, in quanto già esaminata dai giudici a loro discrezione; vennero invece vagliate la seconda e la settima. Si ritornò poi a esaminare la terza fra le accuse mosse dal diacono Giovanni: per questo capo d’imputazione si presentarono a testimoniare – non so a che titolo – e deposero a sfavore del santo, l’arciprete Arsacio (che sarebbe poi succeduto a Crisostomo), il sacerdote Attico e il sacerdote Elpidio; costoro – unitamente al sacerdote Acacio – testimoniarono contro il santo anche per il quarto capo d’accusa.
Evasi questi punti, i sacerdoti sunnominati e, con loro, Eudemone e Onesimo chiedevano che fosse emessa subito la sentenza, e il presidente del sinodo, Paolo vescovo di Eraclea, ritenne giusto che tutti quanti i membri si pronunciassero. I giudici – in base ai pareri espressi – decretarono che il santo fosse deposto dalla sua carica: il primo a parlare fu il vescovo Ginnasio, l’ultimo fu Teofilo, vescovo di Alessandria; la giuria era composta in tutto da quarantacinque membri. In seguito venne data comunicazione scritta al clero di Costantinopoli – ovviamente a nome del sinodo – della deposizione del santo; di tale sentenza furono informati anche gli imperatori. Furono inoltre allegati tre libelli da parte di Geronzio, Faustino e d’Eugnomomio, che sostenevano di essere stati ingiustamente deposti da Giovanni. Vi fu anche una lettera di risposta da parte dell’imperatore. Qui termina il dodicesimo volume degli “Atti”; il tredicesimo – come già ricordato – contiene il materiale relativo a Eraclide, vescovo di Efeso.
* Gli “Atti” del sinodo di Quercia, tenutosi nel 403, narrano il celebre episodio del complotto contro san Giovanni Crisostomo, complotto che determinò la sua condanna. I nemici di Giovanni riuscirono nel loro intento grazie alla complicità dell’imperatrice Eudossia. “La Quercia ” era il nome di una tenuta del ministro Rufino nei dintorni di Calcedone.
(continua…)