domenica 17 aprile 2011

Gli stupa di Sanchi nel Madhya Pradesh


Il mondo indiano, ricco di splendide opere d’arte, ha dedicato pochissimo spazio all’architettura funeraria: è con l’avvento degli invasori musulmani nel XII secolo che si sviluppa la tipologia del mausoleo ed è probabilmente perché influenzati da questo che i sovrani dei Rajput, popolazioni guerriere indù stanziate in quello che oggi è lo stato di Rajasthan, fecero innalzare le chattri, padiglioni colonnati sormontati da cupole, nei luoghi di cremazione delle famiglie reali. Il disinteresse per il monumento funebre è conseguente alla convinzione, fondamentale nella cultura indiana, che l’esistenza non si esaurisca in un unico episodio vitale, ma si dipani attraverso innumerevoli rinascite sotto spoglie differenti.


Ciò porta alla svalutazione del corpo del defunto, che non è unico ed irripetibile, ma si riproduce sempre diverso ogni volta che si torna all’esistenza. La teoria del samsara, ovvero la catena delle rinascite, è radicata nella concezione che la somma degli atti compiuti durante la vita inneschi una serie di effetti solo parzialmente fruibili all’interno dell’esistenza che li ha generati.


Una notevole porzione dei frutti dell’agire, ovvero il karman, matura in tempi lunghi ed impone un ulteriore ritorno nel mondo per la riscossione. Quanto di negativo o positivo l’essere umano sperimenta nella vita presente è causato dalle azioni compiute nelle esistenze passate: sta dunque all’uomo la possibilità di costruirsi una rinascita migliore con un  comportamento virtuoso nella condizione attuale. Il fine ultimo non è, comunque, il miglioramento del samsara, bensì la sua interruzione attraverso un agire che non porti più conseguenze. Il rito consapevole, la conoscenza discriminante, la devozione fiduciosa, il cammino ascetico sono le principali modalità di inibizione degli effetti degli atti del quotidiano. La concezione del karman e del conseguente samsara, tipica del mondo indù, fu condivisa anche dal nobile Siddartha Gautama, divenuto nel VI secolo a.C. il Buddha, il “Risvegliato”, poiché aveva riattinto la Verità nel profondo di ogni essere umano ed aveva di conseguenza raggiunto la condizione di Illuminato. Preso l’atto del dolore che affligge l’umanità e l’universo, costituiti entrambi da serie incessanti di fenomeni transuenti, dolorosi e privi di significazione, il Buddha aveva scoperto nell’attaccamento al mondo materiale la radice della sofferenza e aveva indicato nell’esistenza distaccata del monaco itinerante l’antidoto per estirparla. Alla morte del Buddha, come espressamente raccomandato da lui stesso, quanto rimasto dalla sua cremazione venne diviso tra otto dei più insigni sovrani d’epoca che avevano partecipato alle esequie, con l’impegno di erigere sopra le preziose reliquie dei tumuli funerari.


Secondo la tradizione è questa origine dello stupa, il monumento più importante dell’architettura buddhista, che evidentemente eredita la funzione degli antichissimi ponticelli di terra e mattoni che raccoglievano i resti dei personaggi di spicco fra il II e il I millennio a.C., quando pare sussistessero sia l’inumazione che la cremazione. La cremazione fini per predominare, ma il buddismo diede un nuovo significato nello stupa al tumulo funerario, trasformandolo nell’evocazione tangibile della presenza del Buddha e dei successivi venerabili maestri della comunità monastica buddista.


Da reliquiario lo stupa venne assumendo molteplici significati simbolici, alludendo al contempo al Buddha  e al Dharma, la sua dottrina, essendo rappresentazione dell’universo e rimando alla sua cosmogonia. Il “Grande stupa” di Sanchi a 70 chilometri da Bhopal, capitale dello stato del Madhya Pradesh, né è l’esempio più completo e rappresentativo.


La sua collocazione su un rilievo alla confluenza di due fiumi presentava un’ampia serie di vantaggi: il contesto naturale appartato favoriva la vita monastica e la vicinanza a quella che un tempo era la prospera città carovaniera di Vidisha, oggi Besnagar, rafforzava i rapporti con la comunità dei mercanti, principali sostenitori del buddismo. Le numerose iscrizioni votive sullo stupa attribuiscono infatti alla generosità dei commercianti locali l’esecuzione delle varie parti del monumento.


Dal III secolo a.C., probabile periodo della sua fondazione, fino al XIII secolo, quando iniziò la grande decadenza del buddismo in India, Sanchi continuò ad essere importante luogo di devozione e il grande numero di monumenti costruiti nel corso dei secoli rappresenta un prezioso campionario per l’evoluzione dell’arte buddista. La fama di Sanchi non è collegata a nessun episodio della vita del Buddha, ma si deve al fatto che una delle regine di Ashoka, il grande imperatore della dinastia Maurya che nel III secolo a.C. abbracciò la dottrina buddista, veniva da una famiglia di ricchi mercanti di Vidisha.


Le cronache buddiste ricordano la visita che il principe Mahendra, artefice della diffusione del messaggio dell’Illuminato a Shri Lanka, fece alla madre ed è probabilmente in questa occasione che venne eretto il nucleo centrale più antico in mattoni cotti e malta del “Grande stupa”.


La località, dimenticata per secoli, venne riscoperta per caso nel 1818 dal generale inglese Taylor, diventando meta di archeologi dilettanti e cercatori di tesori. Il restauro iniziò nel 1851, ma fu solo trent’anni dopo che l’opera di restauro venne sistematicamente intrapresa dal maggiore Cole e completata da John Marshall, sovrintendente del Dipartimento Archeologico fra il 1912 e il 1919, che numerò più di cinquanta monumenti.


Lo stupa principale, noto come “Grande stupa” o stupa n.1, ha un diametro di 36,60 metri ed è alto 16,46 metri, escludendo la parte apicale. Il monumento attuale risale al II secolo a.C., quando il tumulo di Ashoka venne inglobato in un corpo di blocchetti in arenaria locale ricoperti da uno spesso strato di intonaco e ampliato con nuove strutture.


La costruzione sorge all’interno di una recinzione, la vedika, che rivela i prototipi lignei, essendo composta da listoni ad incastro riproducenti uno steccato. In essa si aprono quattro portali, i torna, edificati nel I secolo d.C. e costituiti da due pilastri sormontati da tre architravi curvilinei, separati fra loro da blocchi quadrati e da teorie di cavalieri su elefanti e cavalli. Dall’abaco dello stipite alla voluta spiraliforme del primo architrave si protendono sinuose figure di shalabbanjika, le yakshi o ninfe degli alberi, mentre numerosi bassorilievi ornano le superfici dei torana.


Lo stupa si articola in tre sezioni: l’alta base circolare, medhi, che rappresenta la terra; il corpo tumuliforme sovrastante che allude alla volta celeste e al contempo, vista la sua denominazione di anda, rimanda all’”uovo” cosmico galleggiante sulle acque primordiali da cui nacque l’universo; la balaustra quadrata, harmika, da cui svetta il pennone, yashti, perno dell’ideale spirale tridimensionale formata dallo stupa nel suo compattarsi in una serie concentrica di mattoni, alternati a detriti di riempimento, conclusa da un’ultima guaina di pietre.


Raccordo fra mondo sotterraneo, terra e cielo, lo yashti è simbolo dell’axis mundi, espresso dal mondo indiano ora come montagna, ora come albero cosmico. In effetti l’ harmika e lo yashti rimandano ad entrambi, anche se l’ambito buddista sembra privilegiare l’immagine arborea, dato che l’illuminazione di Siddartha è avvenuta sotto un albero, il pipal o ficus religiosa; diventato oggetto di dissolve, al samsara, che è teoria ininterrotta di vite e, al contempo, riproduce la mitica struttura del mondo: una serie concentrica di continenti intercalati da anello di oceano. Così la vedika non solo separa lo spazio sacro da quello profano, ma simboleggia la catena di monti che racchiude l’universo.


 I torana che in essa si aprono espletano la funzione iniziatica della porta, luogo di comunicazione fra il mondo profano e quello sacro, cifra della trasformazione spirituale che si opera entrando nel perimetro dello stupa. Collocati ai quattro punti cardinali, sono le terminazioni dei bracci della croce ideale che, proiettandosi dal centro, determina lo spazio. La disposizione angolata destrorsa dei torana trasforma la croce nella svastica, simbolo del sole e quindi del tempo. Ma il punto centrale donde scaturisce la croce altri non è che il Buddha, inteso come Assoluto, Principio Primo, origine dello spazio e del tempo.


L’irradiamento esplicitato dalla croce a svastica non evoca solo l’espandersi spaziale e temporale del cosmo, ma celebra la diffusione del Dharma, la dottrina salvifica del Buddha che si diffonde verso tutte le plaghe dell’universo. Il corridoio fra lo stupa e la recinzione permette il rito della pradakshina, la deambulazione, che consiste nel girare attorno alla costruzione tenendola alla propria destra, ovvero seguendo il percorso del sole. E in effetti, essendo lo stupa monumento chiuso, è fruibile solo all’esterno.


Di Siddartha, il Buddha storico, non vi sono immagini sui portali di Sanchi. All’epoca della realizzazione dei torana, infatti, predominava la corrente buddista più antica e tradizionale, il Theravada, la “Dottrina dei decani” nota anche come Hinayana, “Piccolo veicolo (di salvezza)”, che vedeva nel Buddha l’incarnazione della dottrina e su questo poneva l’accento piuttosto che sulla dimensione umana del Maestro. Così le vicende del Buddha all’interno dei bassorilievi sono evocate da simboli quali le impronte dei piedi che ne indicano la presenza; l’albero, che celebra il momento dell’illuminazione; il trono ed il parasole, che sottolineano la prominenza dell’Illuminato in seno alla comunità dei monaci; la ruota che evoca la diffusione della dottrina; lo stupa, che celebra l’entrata nel nirvana, lo stato di estinzione del doloroso e incessante divenire terreno. L’estro creativo degli artisti, spesso avariai, ebanisti, gioiellieri, trovò inoltre ampio materiale ad espressione nei “Jataka”, le raccolte letterarie delle vite anteriori del Buddha sotto varie spoglie.


Molto più piccolo e semplice, il vicino stupa n.3, coevo al grande, è preceduto da un solo portale, ach’esso come gli altri del I secolo d.C., inferiore però come finezza d’intaglio. L’importanza del monumento risiede nel suo significato religioso, poiché contiene nella camera delle reliquie due sarcofagi con i resti di Shariputra e Maugdalyayana, famosi discepoli del Buddha.


Anche il più lontano stupa n.2, che sorge su una terrazza artificiale a 320 metri sotto la cima della collina, ospita in un vano decentrato i reliquiari di almeno tre generazioni di insigni maestri buddisti. Simile allo stupa n.3 e probabilmente databile anch’esso al II secolo a.C., però è privo di torna, benché la sua balaustra sia decorata da medaglioni che includono splendidi viluppi floreali, vivaci raffigurazioni di animali e figure umane di stile arcaico.


I numerosi altri stupa in diverso stato di conservazione che costellano la collina di Sanchi, frammisti a templi e ad altri edifici di vario stile, non ospitano reliquie, ma sono offerte votive di pellegrini. Eretti in mattoni o in pietra a seconda delle dimensioni, impostati su basamenti quadrati e dipinti, evidenziano come all’antica destinazione funeraria si sia progressivamente sovrapposta quella celebrativa: lo stupa rappresenta la totalità del mondo buddista, che ha nell’Illuminato la Guida suprema, nella Dottrina il messaggio salvifico e nei monaci e nei laici la Comunità dei Credenti. 

1 commento:

Unknown ha detto...

Ma quante notizie interessanti ci racconti sempre.

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