domenica 10 aprile 2011

Ajanta – Le grotte dei colori


Mentre la parabola dell’impero Gupta (240 – 550 d.C.) compiva il suo corso e prendevano forma le soluzioni architettoniche e scultoree che avrebbero generato l’arte dell’induismo, il mondo buddista entrava nelle sue fasi tarde. I monaci buddisti del Deccan, sotto il patrocinio di dinastie locali legate o meno al potere imperiale del Gange, diedero vita a straordinari complessi monastici, scavati in forma di insieme di grotte nei banchi di roccia vulcanica che formano la penisola indiana. Il sito di Ajanta, sulle rive del fiume Waghora, non distante da Auragabad (Maharashtra, India) è oggi considerato e protetto come patrimonio culturale dell’umanità.


Nello spettacolare scenario di una vasta ansa fluviale che si allarga come la cavea di un immenso teatro naturale, si aprono oggi più di venti grotte artificiali, scavate in forma di monasteri (vihara) e luoghi di culto ipogei (chaitya), abbelliti da sculture e pitture. Le grotte vennero scavate in un periodo di intenso fervore religioso, sotto gli auspici della dinastia Vakataka, connessa ai Gupta per via matrimoniale, e in particolare sotto il regno del monarca Harisena.


In una delle grotte di Ajanta, un’iscrizione ricorda la generosità del donatore privato in termini “…che uomini dall’anima meschina non possono neanche immaginare” ed è certo che gli investimenti da parte delle aristocrazie del tempo nel patrocinare lo sviluppo del complesso monastico, nella seconda metà del V secolo d.C., furono davvero principeschi. Migliaia di operai devono aver lavorato per portare a termine questi ambiziosi progetti.


Nell’atmosfera di “rinuncia alle seduzioni del mondo” che pervade il luogo monastico, la morbidezza dello scolpito e l’esuberante ricchezza formale dell’intero complesso danno vita a uno stimolante contrasto, che ricorda da vicino alcune delle contraddizioni più evidenti della più antica arte del Gadhara. Certo, i monasteri di Ajanta dovevano essere stati scavati non solamente per gli asceti più severi, ma anche per i membri dell’aristocrazia che avevano abbracciato la fede del Buddha.


Alcune delle grotte più antiche comprendono, oltre alle celle del vihara, delle grandi cavità absidale con un fitto colonnato interno, interamente scolpito nella roccia, che racchiude il modello di uno stupa, o monumento funerario di culto buddista. Le facciate sono davvero monumentali, con piccoli portici scolpiti ad abbellire la porta, sormontati da grandi finestre a ferro di cavallo che, nella pietra, ancora indicano antichi prototipi lignei.
A fianco di porte e finestre si affolano, entro apposite nicchie architettoniche, altorilievi con figure di Buddha (in piedi o assiso in predicazione), dei personaggi delle sue avventure terrene, di sensuali coppie in mithuna, o corrispondenza amorosa.


Alcune figure del Buddha recano principesche corone, segno del carattere universale del loro dominio. Non mancano poi i Nagaraja, i Re dei serpenti e degli spiriti ctoni, accompagnati dalle loro consorti, simboli delle antiche religioni e della conversione del mondo intero al credo di Siddarta.


Le figure sono atteggiate in pose morbide e flessuose, tipiche dell’arte del periodo Gupta, con i corpi appena coperti da tessuti diafani, immateriali, quasi a sottolineare il conforto della religione del Buddha e la naturalezza della sua condizione illuminata; i temi narrativi vertono intorno alla promessa dell’ottenimento del Nirvana, l’annullamento individuale nell’assoluto, la più elevata meta spirituale dei buddisti e soprattutto dei monaci che risiedevano nel complesso.


Nell’interno, attorno allo stupa e sui capitelli dei colonnati, si affacciano ancora altre immagini del Buddha, forse riflessi degli infiniti Buddha preposti agli infiniti mondi in cui, secondo i buddisti del Mahyana o Grande Veicolo, si dilatava l’universo. In origine, le sculture delle facciate, come quelle dell’interno, erano coperte di vivaci policromie, una componente fondamentale dell’arte indiana di ogni tempo. Mura, soffitti, pilastri compositi a figure geometriche sovrapposte, centinature, nicchie e statue erano vivacizzate dagli artisti tramite colori semplici ma contrastanti.


Le grotte più recenti, scavate tra la fine del V e gli inizi del VI secolo d.C., già anticipavano l’esuberanza figurativa degli sviluppi più tardi dell’arte buddista e induista. Nelle facciate, il portico viene sostituito da una più ambiziosa veranda che, con le sue ombre, funge da spazio intermedia tra l’assoluto esterno e l’oscurità della grande sala interna, che dà adito alle celle dei monaci e alla sala absidata con il colonnato interno e lo stupa.


L’interno comunica un’inedita impressione di vastità: le sue superfici sono ora affollate di immagini di Buddha e Bodhisattva e, nella grotta 26, lo stupa stesso si trasforma in una specie di facciata templare dalla quale, tra fregi finemente scolpiti, si materializza la figura dello stesso Buddha, seduto in trono. Dallo stupa si affaccia una serie di ombrelli sovrapposti, simbolo della progressiva ascesi del fedele verso il Nirvana, che sembrano sfondare la volta stessa della sala, percorsa da una fitta trama di centinature che ne accentuano l’illusione di sfondamento spaziale.


Nella stessa grotta, si apre nella parete una grande scultura a sviluppo orizzontale, rappresentante il Buddha Shakyamuni nel Prininirvana, l’Ottenimento della salvezza. La scultura è un colosso lungo sette metri, che il fedele, costretto nel corridoio, poteva vedere solo poco a poco: quasi un’ammissione di umiltà da parte dello spettatore.


Nei monasteri vengono ora scolpite celle e nicchie nelle quali le immagini sacre ricorrono a profusione: da semplice luogo di raccoglimento, meditazione e cult, il monastero si trasforma in una materializzazione dei molti paradisi buddisti, dove il Buddha del Grande Veicolo insegnano ai Bodhisattva e quindi ai fedeli, tramite il dharma, le vie più opportune per il raggiungimento della salvezza. Molte delle celle interne ai monasteri diventano veri e propri sacelli: siamo di fronte a una dilatazione del ritualismo e delle pratiche devozionali.


Nei soffitti dei vihara prevale l’aspetto decorativo, con motivi floreali e astratti, e comparse solo episodiche di temi zoomorfi e umani. I vivaci colori e le rigide geometrie dei soffitti suggeriscono la comparsa dei paradisi celesti. Sulle pareti, invece, si estendono le composizioni ispirate alle vicende terrene della vita di Buddha e soprattutto a innumerevoli jataka, ossia le storie delle vite precedenti del Buddha Shakyamuni e degli altri Illuminati che lo avevano preceduto.


Le figure dei Buddha e dei Bodhisattva, in ossequio alla concezione soprannaturale che presiede alla generazione delle icone religiose, non venivano trattate in modo realistico, con giochi di luce e di ombre. Le figure sacre, al contrario, emettono la propria luce, a stento contenuta da sottili linee di contorno, e spiccano con forza come silhouettes sulle tonalità scure degli sfondi. I giochi di chiaroscuro sono limitati a modulazioni nei tratti del volto e anche gli occhi dei personaggi, spesso socchiusi, ricordano stati di meditazione e sembrano trattenere con difficoltà l’emanazione di arcane energie interiori.




1 commento:

Unknown ha detto...

incredibile che tutte queste sculture e queste raffigurazioni siano "nascoste" all'occhio umano, scavate praticamente nella roccia...

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