lunedì 7 febbraio 2011

La statua di Zeus a Olimpia (parte II)


La narrazione di Pausania è piena di simili particolari e dimostra come la statua fosse un vero scrigno del repertorio della mitologia greca. Egli notò che a uno dei rilievi decorati tra i due piedi anteriori del trono mancava uno dei fregi scolpiti; nessuno gliene seppe spiegare il motivo. Un’altra figura sul medesimo rilievo, «un ragazzo che si cinge il capo con un nastro, dicono sia il ritratto di Pantarce, un giovinetto di Elide che sarebbe stato l’amante di Fidia, e Pantarce vinse nella lotta fra giovani nell’ottantaseiesima olimpiade» (436 a. C.). L’aver nominato Pantarce ci precisa con una certa esattezza in che tempo Fidia operava ad Olimpia.
Secondo un altro racconto, ricordato dall’autore cristiano Clemente di Alessandria, sul dito di Zeus era graffita la frase «Pantarce è bello», per cui si può pensare che il giovane Pantarce fosse l’amante di Fidia. Ad ogni modo questi collegamenti tra Fidia e Pantarce convalidano le risultanze degli scavi nel laboratorio, e cioè che Fidia lavorò alla statua di Zeus dopo la sua fuga da Atene.
«Sulle altre barre del trono sta la schiera di coloro che con Eracle combatterono contro le Amazzoni», continua Pausania descrivendo la statua. Egli ci narra che in due gruppi si contavano ventinove figure e sottolineava che questi rilievi costituivano una decorazione scultorea davvero eccezionale. La battaglia di Ercole con le Amazzoni era la nona delle dodici fatiche impostegli da Euristeo, re di Argo. Gli era stato comandato di conquistare per la figlia del re la cintura d’oro portata da Ippolita regina delle Amazzoni, una stirpe di donne guerriere che viveva sulle coste del Mar Nero. La battaglia che ne seguí è uno dei temi piú sfruttati dalla pittura e dalla scultura della Grecia arcaica.



Pausania parla anche di quattro colonne, oltre le quattro basi del trono, che fornivano un maggiore sostegno. Queste non appaiono nelle rappresentazioni offerte in miniatura. Zeus tiene il lungo scettro nella mano sinistra. La figura della Vittoria alata, che pure doveva essere di dimensioni non troppo modeste, stava ritta sulla mano destra, e il suo peso gravava sul bracciolo del trono. I piedi del dio posavano su un grosso sgabello sostenuto da due leoni, pure d’oro; e Pausania parla di un’altra scena di Amazzoni, ma questa volta insieme a Teseo, l’eroe di Atene.
La grande base della statua era in marmo eleusino nero e blu, riccamente decorato, con figure d’oro in rilievo, tratte dalle più note leggende della mitologia greca: il dio del sole, Elio, sul suo carro; Zeus e sua moglie Era; Eros che saluta Afrodite, la dea dell’amore, mentre sorge dal mare; la Luna su un cavallo, e molte altre. Lo sfondo scuro della pietra metteva in risalto il movimento delle figure, arrestate per un attimo, secondo un metodo di dar rilievo al colore, usato anche per i fregi dell’Eretteo ad Atene.
Paneno era uno dei pittori piú famosi del suo tempo. Pausania lo indica come fratello di Fidia, Strabone come nipote. Qualunque fosse la loro parentela, la loro collaborazione nelle maggiori opere progettate da Fidia è sicura.
Le pareti divisorie mostravano nove scene, forse una sequenza di riquadri, separate su ciascun lato del trono. La parte posteriore di questo era protetta dal muro dell’edificio. Il tema dei dipinti non era unico, ma molti erano chiaramente scelti per richiamare le sculture sui muri esterni del tempio. Due si riferivano alle sculture dei timpani, ossia gli spazi triangolari tra gli spioventi del tetto e i muri di sostegno. Le nozze di Piritoo, re dei Lapiti nella Tessaglia (Grecia settentrionale), e ritenuto figlio di Zeus, era il soggetto del timpano occidentale. Il re aveva invitato alla festa i Centauri, selvagge reature dei boschi montani, mezzo uomini e mezzo cavalli; ed essi, ubriachi, avevano aggredito le donne e tentato di rapire la sposa di Piritoo; tema usato da Fidia sulle metope, e cioè le lastre scolpite che ornavano l’esterno del Partenone.



Altri affreschi di Paneno narravano di Ippodamia, della quale abbiamo già detto come fosse collegata con la fondazione dei giochi olimpici, e che era celebrata nelle sculture del timpano orientale del tempio. Anche le Fatiche d’Ercole erano illustrate da Paneno in tre affreschi, e pure rappresentate nel fregio scolpito lungo le pareti del tempio. Un’altra delle molte leggende intorno ad Eracle, rappresentata da Paneno vicino al dipinto di Ippodamia, mostrava Eracle che muove in aiuto del semidio Prometeo, punito da Giove per aver trasmesso agli uomini l’uso del fuoco. Prometeo era incatenato alla roccia e un’aquila gli divorava il fegato, che di notte ricresceva per quanto l’aquila poteva divorare di giorno.



Uno dei dipinti piú interessanti di Paneno si riferiva a un avvenimento storico di grande attualità e risonanza: la battaglia di Salamina, presso Atene, del 480 a. C., un evento solo di pochi anni anteriore alla costruzione del tempio di Zeus a Olimpia. Paneno, nella famosa Stoa dipinta nella piazza del mercato di Atene, aveva pure affrescato la battaglia di Maratona, quella in cui nel 490 un piccolo esercito ateniese aveva impedito lo sbarco in territorio greco, a Maratona, all’esercito molto piú grande del re persiano Dario. Come Salamina, anche quella battaglia era considerata la vittoriosa sfida dei Greci contro le genti barbare dell’Est. Le parti dipinte furono l’ultimo tocco alla grande decorazione della statua di Zeus. Sembra che Fidia sia vissuto abbastanza per vedere completata la sua opera, sebbene fosse già sui cinquant’anni quando l’aveva iniziata. Pare che nel 432 a. C. egli fosse tornato ad Atene, e che là morisse assassinato dai suoi avversari politici.
Se è vero quanto si afferma, che l’intera opera fu terminata in cinque anni o pressappoco, dobbiamo ritenere che Fidia fosse circondato da una squadra di scultori, come certamente era avvenuto per le sculture del Partendone ad Atene.
Quando la statua fu terminata, Fidia pregò il dio di manifestare con un segnale se l’opera era di suo gradimento; e subito, dicono, un fulmine cadde nel punto del pavimento dove fino ai miei tempi vi era per copertura un’anfora. Tutto il pavimento davanti alla statua è composto di lastre non bianche, ma nere; però un bordo di marmo pario circonda quello nero per trattenere l’olio di oliva che si fa scorrere lungo la statua.
Cosí conclude Pausania la sua vivace descrizione della statua di Zeus.



Dal momento della sua costruzione, essa fu ammirata come il grande capolavoro dell’età d’oro della scultura classica. La sua manutenzione fu affidata ai «brunitori», che si diceva fossero discendenti di Fidia. La strana usanza di cospargerla d’olio d’oliva, riferita da Pausania, forse derivava dalle gravi screpolature che si verificavano nell’avorio, dato il clima umido del santuario: umidità particolarmente forte a metà del II secolo a. C., tanto che a riparare la statua fu chiamato Damofone, scultore di Messene, una città del Peloponneso meridionale. Si dice che egli abbia operato molto abilmente, e può darsi che in quell’occasione siano state collocate sotto il sedile le quattro colonne di cui si è detto, per impedire che crollasse sotto l’enorme peso della figura soprastante.



Circa alla stessa epoca (167 a. C.) il re di Siria Antioco IV dedicò al tempio di Zeus un drappo di lana «tessuta con motivi assiri e tintura fenicia». Forse questa cortina di origine asiatica, abbastanza importante da attrarre i commenti di Pausania, stava appesa dietro la statua. Antioco è lo stesso re che, saccheggiato il tempio di Salomone a Gerusalemme, aveva dato ordine di ribattezzarlo come tempio di Zeus Olimpio. Fra i tesori ch’egli sottrasse al tempio potrebbe esserci stato anche il grande velo che divideva l’interno. Con non molta fantasia si può asserire che proprio quella era la cortina dedicata poi da Antioco al padre dei suoi dèi a Olimpia.
La statua fu sempre motivo di stupore e meraviglia per i fedeli di Zeus. Oltre quattrocentocinquant’anni dopo, l’imperatore romano Caligola (37-41 d. C.), secondo la tradizione dei conquistatori romani nei confronti dei tesori dell’arte greca, si adoperò con ogni mezzo per avere la statua a Roma. Furono spediti operai per escogitare il modo di trasportarla, ma la statua «emise improvvisamente una cosí sonora risata che fece crollare l’impalcatura e scappar via gli uomini». È Svetonio, biografo di Caligola, che si diverte a riferire questo aneddoto sull’odiato imperatore. Ma la statua non poteva restare intatta per l’eternità. Nel 391 d. C. il clero cristiano trionfante persuase l’imperatore Teodosio I a bandire il culto pagano e a ordinare la chiusura dei templi. Furono sospesi i giochi olimpici e il grande santuario di Olimpia cadde nell’abbandono.



La statua, che all’epoca contava piú di ottocento anni, fu alla fine trasportata dal tempio di Olimpia ad ornamento di un palazzo di Costantinopoli. La bottega di Fidia fu trasformata in chiesa cristiana. Il tempio fu seriamente danneggiato da un incendio verso il 425 e nel VI secolo il fiume Alfeo cambiò il suo corso. L’intera area di Olimpia, abbandonata all’incuria, fu distrutta da frane, terremoti e inondazioni. Per piú di mille anni la zona giacque sotto uno spesso strato di sabbia, fango e detriti. L’aver trasportato la statua a Costantinopoli la salvò dal disastro, ma nel 462 un grande incendio divampò a Costantinopoli e distrusse il palazzo che la custodiva. Mentre il tempio di Olimpia si sbriciolava nell’oblio del Peloponneso, la bellissima statua, considerata il piú grande capolavoro della scultura classica, veniva distrutta sulle rive del Bosforo.
Non ne sono rimaste copie per dirci con maggiore abbondanza di particolari qual era il suo aspetto. A Cirene, nella Libia, una copia molto grande era venerata nel locale tempio di Zeus. Ne fu trovata la base durante gli scavi, ma niente di piú. Sembra che gli scultori fossero decisamente restii a copiare il capolavoro di Fidia, anche in piccolo. Siamo già abbastanza fortunati di essere a conoscenza dell’impressione che esso produceva attraverso gli scritti di autori come Pausania. Se la statua fosse rimasta ad Olimpia, anche se spogliata dei suoi materiali preziosi, forse qualche frammento si sarebbe salvato per offrirsi oggi alla nostra ammirazione.

Testo di Martin J. Price

La statua di Zeus a Olimpia (parte I)

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