sabato 30 aprile 2011

Palazzo reale di Aranjuez


“I bei giorni di Aranjuez sono giunti al termine”. Così suona l’incipit del Don Carlos di Frederich Schiller, con cui il poeta consacrava Aranjuez ai vertici della letteratura europea. Solo chi conosce l’affascinante castello degli Asburgo e dei Borbone potrà comprendere il senso di struggente nostalgia che si cela dietro queste parole.



La città di Aranjuez sorge sul Tago, a circa 50 chilometri in direzione sud della capitale Madrid. La fertile valle che circonda la città produce asparagi, fragole, fiori, alberi ed arbusti, tanto che la zona appare come un’oasi nella Meseta, il cuore brullo della Spagna.



La particolare bellezza indusse Filippo II a costruire qui la residenza estiva della famiglia reale. Nel 1569 l’architetto di corte Juan de Herrera, già coinvolto nella costruzione dell’Escorial, fu incaricato di realizzare i progetti per la conversione del palazzo del 1387, originariamente sede del Maestro dell’Ordine di San Giacomo. Il castello sarebbe stato completato solo due secoli dopo, nel 1778, e il risultato fu una dimora dove i membri della famiglia reale potevano rilassarsi in piena tranquillità e dedicarsi agli svaghi.



Per quanto riguarda i materiali impiegati per la costruzione, Herrera scelse mattoni dalla sfumatura calda che abbinò a una palida arenaria per le cornici delle finestre, le lesene e altri elementi decorativi, così da creare un piacevole contrasto sulla facciata. L’alternanza si contrappone al ritmo delle linee architettoniche, in un rapporto che è stato mantenuto nei secoli nonostante i numerosi lavori di adeguamento; pertanto l’impressione complessiva è di grande armonia.



La facciata attuale si deve all’italiano Giacomo Bonaria. Questi, nel 1748, dopo aver studiato i progetti di Herrera, conferì alla parte centrale una maggiore prominenza realizzando una linea sfalsata del tetto corredato di balaustra, a sua volta supporto per le statue dei re Filippo II (1556 – 98), Filippo V (1683 – 1746) e Ferdinando VI (1713 – 1759).



Carlo III (1716 – 1788), che desiderava dare il suo contributo all’opera di adeguamento del castello, chiese all’architetto italiano Francesco Sabatini di edificare le ali laterali ispirandosi alle residenze barocche di molte capitali europee: sarebbe stata l’ultima aggiunta al complesso.


I Borbone, nel XVIII e XIX secolo, apportarono decorazioni secondo il gusto dell’epoca, arredando le stanze all’ultimo piano in stile moresco, cinese e pompeiano.
Splendida  per la sua unicità è la Camera di Porcellana di Carlo III, creata da Giuseppe Cricci e dai suoi artigiani napoletani, con un lavoro durato sei anni (1759 – 1765).



Carlo V (1500 – 1558) fece invece realizzare un parco all’inglese importando olmi e altre piante dalle isole britanniche. Si tratta del più antico giardino di Spagna che rientra in questa tipologia. In origine, all’epoca dell’Ordine di San Giacomo, non mancavano i giardini fioriti dalla struttura formale che furono poi gradualmente modificati dagli occupanti del complesso.



Nel XVII secolo, il paesaggista Cosimo Lotti creò il Jardin de Isla, un parco con laghetti, fontane, bordure e sculture di divinità ed eroi classici, come prevedevano i canoni barocchi. Nel 1780, Carlo IV ridisegnò il Jardin del Principe secondo il proprio gusto personale: qui, lungo le rive del Tago, il re e la sua corte erano soliti trascorre ore liete e tenere feste all’aperto.


LA CASA DEL LABRADOR – A nord-est di Aranjuez si trova la Casa del Labrador. Si tratta di una piccola dimora nobilitare edificata sul sito dove sorgeva un’antica fattoria da cui prende il nome.


Carlo IV, che aveva scoperto questo ritiro tranquillo e isolato durante una battuta di caccia, aveva deciso di farne quello che sarebbe stato l’ultimo castello borbonico tra il 1792 e il 1803. L’architettura elegante e la sfarzosa decorazione rococò conferiscono alla Casa del Labrador un aspetto particolarmente raffinato.


Qui la regina Maria Luisa era solita incontrare il suo amante, il ministro Manuel Godoy, personaggio di spicco nella gestione del governo. Dal momento che aveva stretto un’alleanza con la Francia, la Spagna dovette affrontare numerose e sanguinose battaglie contro Gran Bretagna e Portogallo, incorrendo in pesanti perdite. Nella primavera del 1808, l’insoddisfazione polare sfociò in una rivolta proprio ad Aranjuez, costringendo Carlo IV ad abdicare. Il francofilo Gody perse il proprio incarico e dovette abbandonare la Casa del Labrador.

venerdì 29 aprile 2011

Hohenzollern – Un castello tra le nuvole


“Il panorama che si gode dal Burg Hohenzollern merita davvero il viaggio”, ebbe a dire l’imperatore Guglielmo II, quando visitò il castello. La vista spazia dalle Alpi Sveve, alla Foresta Nera fino alle Alpi Svizzere sullo sfondo. Burg Hohenzollern è uno dei pi importanti monumenti nazionali tedeschi del XIX secolo.


Non solo la vista dal castello è spettacolare, ma anche quella del castello. Situata a sud di Tubinga, svetta imponente, con le sue torri, torrette e guglie, sulla sommità del monte Zoller. Deve la sua forma attuale a Federico Guglielmo II, che lo fece erigere tra il 1850 e il 1867: un gesto provocatorio della monarchia contro le nuove spinte liberali che, diffondendosi in buona parte dell’Europa, auspicavano un modello di governo parlamentare.


Un primo insediamento sul monte Zoller fu costruito nel 1061. l’antica dinastia degli Hohenzollern prende nome proprio da questo toponimo, poiché nel Medioevo, ma già in epoche precedenti, era consuetudine che i nomi derivassero dalla denominazione del luogo abitato.



Nel 1423 il castello, nelle mani del barone di Zollern – un bandito pericoloso e sanguinario – fu distrutto dalle truppe della lega delle città sveve e re Sigismundo emise un decreto che ne proibiva la ricostruzione. Il divieto fu infranto appena 30 anni dopo dall’imperatore Federico III, che lo fece ricostruire e ampliare notevolmente.



Tra il 1617 e il 1633, fu trasformato in una fortezza, ma a partire dal 1771, dopo il ritiro delle truppe austriache, cadde in rovina, finche Federico Guglielmo IV non si occupò personalmente della sua ricostruzione, dando così nuovo fasto alle antiche mura che avevano visto sorgere l’importante casata.


La pianta dell’antico Burg Hohenzollern fu mantenuta e vennero incorporati alcuni edifici quali la Cappella di St. Michaele, la Torre del Vescovo e la Torre Imperiale. La verticalità degli elementi architettonici, che rende il complesso così ben visibile da lontano, si deve al progetto commissionato dal sovrano: un progetto che doveva essere la realizzazione di un sogno romantico, in linea con la tendenza del XIX secolo.


Il principe Luigi Ferdinando di Prussia (1907 – 1994) fece di Burg Hohenzollern il prezioso scrigno per i suoi pregiati pezzi d’arte. Proprietario di numerosi e rari cimeli che testimoniano la storia prussiana e che includono dipinti, pezzi d’arredamento, oggetti personali e persino l’uniforme di Federico il Grande, ha trovato nelle splendide sale del castello, con le loro colonne in marmo, i soffitti affrescati e a cassettoni e le pareti a boiserie, lo scenario ideale per questi tesori unici.


giovedì 28 aprile 2011

Basilica di San Pietro in Vaticano


La Storia

La basilica Vaticana è il più grande santuario della cristianità, dedicato all’apostolo Pietro ed edificato sulla sua sepoltura.
La denominazione “Vaticano”, secondo alcuni è dovuta al fatto che sulla sommità del colle, sin dal tempo degli Etruschi, si trovava un tempio dedicato ad un dio vaticanatore, che prediceva il futuro: il dio Vaticano. I suoi sacerdoti, profeti, erano chiamati vates.
Secondo Plinio, invece, perché i romani sarebbero stati incitati dalla voce di un vates (indovino) a conquistare la riva destra del Tevere, occupata dagli Etruschi.


AGER VATICANUS – La basilica di San Pietro in Vaticano sorge in un area anticamente denominata Vaticanum. Con questo termine si indicava geograficamente la zona destra del Tevere, compresa tra il fiume e il monte Granicolo.


Dopo la costruzione delle mura aureliane, nuova cinta difensiva voluta dall’imperatore Aureliano (270 – 275 d.C.) in sostituzione delle vecchie strutture difensive di età repubblicana, la pianura vaticana si trasformò in zona residenziale, rimanendo esterna alla città. Circondata dal verde e lontana dal traffico cittadino, Agrippina, moglie di Germanico e madre di Caligola, vi fece costruire la sua villa, e tra i gradini materni il figlio Caligola edificò un circo privato per esercitarsi nella corsa della biga. Lungo seicento metri e largo quasi cento, il circo si sviluppò parallelamente al lato sinistro dell’odierna basilica, indicato dall’obelisco che oggi si trova al centro della piazza, e ben presto divenne l’edificio più importante dell’intera area.


Dopo la morte dell’imperatore, il circo con i giardini annessi passarono al suo successore Claudio, e dopo di lui a Nerone il quale, oltre a corrervi con la quadriga, lo usò dapprima per accogliervi i romani scampati al grande incendio che nel luglio del 64 aveva distrutto Roma, poi lo trasformò in teatro della feroce persecuzione contro i cristiani, accusati di essere stati gli esecutori dell’incendio. Migliaia furono i cristiani crocifissi o arsi vivi tra il 64 e il 67 d.C. Tra essi trovò la morte anche l’apostolo Pietro.
Vicino al luogo del martirio e sulla sua semplice sepoltura, l’imperatore Costantino, per proteggere ed onorare la memoria di una vittima tanto amata e tanto illustre, promosse la costruzione di quella che sarebbe diventata una tra le più belle basiliche del mondo cristiano.


LA TOMBA – La pianura vaticana era attraversata da tre vie consolari: l’Aurelia, la Trionfale e la Cornelia. Lungo quest’ultima, a poca distanza dal circo di Nerone, si trovava una necropoli, cimitero a cielo aperto.
I mausolei, grandi stanze coperte a volta e con l’accesso rivolto ad est, verso il sole nascente, appartenevano a famiglie di ricchi liberti e i loro interni erano ornati con eleganti pitture, decorati a stucco e in alcuni casi rivestiti da mosaici. Le spoglie di Pietro erano state deposte in questa zona, in prossimità del luogo del suo martirio.


A differenza dei ricchi mausolei vicini, la sua sepoltura era semplice: una edicola funeraria evidenziata con un modesto monumento di piccole dimensioni, costituito da due nicchie sovrapposte e da un piano aggettante in travertino sostenuto da due colonne. Questa edicola è oggi denominata con il nome di “trofeo di Gaio”, definizione divenuta di uso comune dopo che lo storico della Chiesa, Eusebio di Cesarea (metà del IV secolo), riportò nella sua “Storia ecclesiastica” le parole di un diacono di nome Gaio vissuto a Roma attorno al 200. Protagonista di una polemica con l’eretico montanista Proco, che vantava a Ierapoli, in Asia minore, la presenza di importanti tombe apostoliche, Gaio gli contrappone i “trofei” degli apostoli Pietro e Paolo, rispettivamente in Vaticano e sulla via  Ostiense. Una testimonianza sin da allora considerata di grande importanza al punto che, quando nel corso di una campagna di scavo sistematica sotto la Confessione vaticana si rinvenne la piccola edicola commemorativa dell’Apostolo, essa venne denominata “trofeo di Gaio”.


Su questa edicola, divenuta subito luogo veneratissimo, l’imperatore Costantino costruì un monumento marmoreo e dopo di lui, esattamente sullo stessa verticale, furono edificati l’altare di Callisto, nel 1123, e l’altare di Clemente VIII, nel 1594.
Nonostante i cambiamenti avvenuti nel corso dei secoli, ancora oggi, immaginando un asse ideale, la croce che si innalza sulla cupola michelangiolesca si collega al sepolcro di Pietro, ed indica a chi giunge a Roma che lì, in quel preciso luogo, è la tomba del principe degli apostoli.


LA BASILICA VOLUTA DALL’IMPERATORE COSTANTINO – Per costruire medievale l’imperatore Costantino e i suoi architetti dovettero affrontare e risolvere enormi difficoltà di ordine giuridico, economico e tecnico. Il primo vero problema era rappresentato dalla necropoli, cimitero a quel tempo ancora in uso. La legge romana aveva un grande rispetto per i morti e garantiva l’inviolabilità dei sepolcri. Eventuali spostamenti o distruzioni potevano essere autorizzati solo dal Pontefice Massimo, cioè dall’imperatore.
Per non entrare in conflitto con le importanti famiglie proprietarie dei mausolei, la necropoli non venne distrutta ma colmata di terra. Con questa soluzione, se l’accesso alle tombe fu impedito per sempre, i corpi lì sepolti e quanto era stato costruito intorno rimasero intatti.


Il secondo problema era legato alla natura del terreno, essendo difficile costruire su un pendio della collina un edificio che si voleva imponente. Tutti questi ostacoli non spaventarono l’imperatore, ed i lavori iniziarono con la spianata della parte alta del monte e la creazione a valle di robusti contrafforti, alti più di 7 metri. Nessuna difficoltà avrebbe potuto arrestare l’opera di costruzione, poiché forte e sicura era la convinzione che il santuario dovesse sorgere esattamente sul luogo nel quale riposava il corpo di Pietro dopo i martirio. Mentre si stava ancora lavorando, papa Silvestro consacrò l’edificio ma né il papa né l’imperatore videro la loro opera compiuta, ultimata poco prima del 350 durante il regno di Costante I, secondogenito dell’imperatore Costantino.


ESTERNO – Una volta finita, la basilica voluta dall’imperatore Costantino apparve agli occhi dei contemporanei bellissima. Per entrare bisognava salire una scalinata di 35 gradini, con alla base le statue dei Santi Pietro e Paolo.


Giunti in cima era la facciata del quadriportico, caratterizzata sulla destra dalla torre campanaria, la più alta di Roma, sopra la quale brillava una sfera di bronzo dorata sormontata da un gallo bronzeo, richiamo alla vita di Pietro. Oltrepassati i cancelli si apriva un ampio spazio, lungo 56 metri e largo 62, delimitato su tutti e quattro lati da un quadriportico sostenuto da 46 colonne. In un primo momento, l’interno era un giardino ornato di fiori e siepi.


Successivamente pavimentato, al centro vi si collocò il cantharus, fonte riservato alle abluzioni, coperto da un baldacchino bronzeo sorretto da otto colonne di porfido e decorato nella parte superiore con due pavoni bronzei e quattro delfini dorati. Cancelli e transenne proteggevano una grande pigna anch’essa in bronzo, opera di fattura romana, oggi nel cortile omonimo dei Musei Vaticani.


La facciata era interamente decorata a mosaico, con una raffigurazione divisa in tre ordini ed in cima una grossa croce in marmo.
All’interno della basilica si accedeva attraverso cinque porte:
  1. Porta Guidonea (perché i pellegrini vi entravano accompagnati dalle guide)
  2. Porta Romana (perché qui si affiggevano le insegne della vittoria e vi potevano entrare solo i romani)
  3. Porta Argentea (perché rivestita con lamine d’argento fatte apporre da Gregorio I (590 – 604))
  4. Porta Ravenniana (perché vi potevano entrare solo gli abitanti che risiedevano oltre il Tevere, zona nota come civitus ravennatium)
  5. Porta Iudici II (perché riservata al transito dei cortei funebri)

INTERNO – L’interno, a croce latina, era caratterizzato da una grande aula absidata, lunga 90 metri e larga 84, divisa a cinque navate. La navata centrale, larga più di 23 metri, era separata dalle navate laterali da quattro file di 22 colonne ciascuna. Durante il giorno gli ambienti erano illuminati dalla luce del sole che entrava da 72 finestre, dapprima protette con lamine metalliche, poi con lastre marmoree traforate.
Papa San Leone IV (847 – 855) le fece rivestire di mica, alabastro e vetro e nel XV secolo, dopo aver cambiato le cornici marmoree, furono inserite vetrate colorate. Oltre alla luce naturale, sia di giorno che di notte rimanevano sempre accesi circa 700 lumi, di cui 122 solo intorno alla tomba di Pietro. Per eliminare l’odore acre dell’olio consumato, in alcune lampade si bruciavano profumi e balsami orientali, che diffondevano in tutta la basilica un gradevole odore aromatico.


Le pareti della navata centrale erano decorate con un vasto ciclo di affreschi raffiguranti storie dell’Antico e del Nuovo Testamento, che si svolgeva su due registri sovrapposti. Le scene dell’Antico Testamento illustravano la Genesi e l’Esodo ed  erano dipinte sulla parete destra, mentre sulla parete opposta erano scene della vita e della Passione di Cristo: alla Crocifissione spettava un posto preminente, essendo l’unica raffigurata su due registri, al centro della navata. Nella fascia più alta, tra le finestre, erano state dipinte figure di Patriarchi, Profeti e Apostoli. Quanto non era stato affresco, era interamente ricoperto di marmi preziosi, mosaici, bassorilievi, statue e metalli. Oltre all’altare della Confessione, edificato sulla tomba di Pietro e dove celebrava solo il Papa, vi erano altri settanta altari, sparsi dovunque, anche a ridosso delle colonne, di cui ben 16 dedicati alla Vergine.
Il passaggio tra l’ala centrale e il transetto era separato da un arco trionfale. L’aula trasversale, lunga 90 metri, sporgeva dai muri estremi ed era assai più bassa della navata centrale. Spostata verso l’abside di fondo si trovava la tomba di Pietro, allora come oggi, cuore e centro della basilica.


LA CONFESSIONE – Divenuta subito un vero santuario, la tomba di Pietro veniva indicata con la parola “confessione”. Nella lingua latina questo termine esprime l’affermazione di una verità sino alla morte: quando un martire versa il proprio sangue per Cristo lo confessa, proclamando con un atto di suprema testimonianza la sua fede.
Con Costantino, la semplice edicola che proteggeva la sepoltura di Pietro era stata delimitata da una base in pavonazzetto, protetta da una costruzione marmorea aperta solo nella parte frontale per permettere ai fedeli di vedere la tomba. Tre secoli dopo papa Gregorio Magno (590 – 604), volendo celebrare proprio sulla tomba dell’Apostolo, modificò quanto era stato fatto da Costantino.
Il pavimento del presbiterio, area riservata esclusivamente al clero, fu sopraelevato e per rendere accessibile il sepolcro si costruì un corridoio sotterraneo che girava intorno alla tomba. La nuova sistemazione fu separata dal resto della basilica da una doppia fila di sei colonne tortili, la più interna delle quali era chiusa da plutei. Nel 1123 papa Callisto II racchiuse l’altare di Gregorio Magno in un nuovo altare, e 500 anni dopo Clemente VIII ripeté la stessa operazione, edificando un nuovo altare, quello attuale, sopra l’altare di Callisto.


Continua….


martedì 26 aprile 2011

Chillon – La fortezza dei conti di Savoia


Chillon fu per secoli il punto di forza dei Savoia sul lago di Ginevra. Immerso nell’acqua, rinforzato da solide torri, è inserito in un contesto che ha affascinato artisti come Victor Hugo, Alexandre Dumas e, soprattutto, Gorge Byron.


UN BALUARDO DIFENSIVO COSTRUITO SULL’ACQUA – La posizione del castello è ideale per la difesa: la sua parte frontale si immerge nelle acque del lago di Ginevra, mentre alle spalle è protetto dai ripidi pendii delle Alpi. Una situazione ottimale, che garantiva la sicurezza dell’edificio e consentiva ai suoi occupanti di controllare sia il lago sia possibili assalti dalla terraferma.


UNA FORTEZZA SECOLARE – Chillon è una delle più antiche fortificazioni europee erette sull’acqua: la prima menzione risale al 1005. gli edifici appartennero prima al vescovo di Sion quindi, nel XII secolo, passarono ai conti (poi duchi) di Savoia, i quali ampliarono il complesso, lo fortificarono e gli diedero la struttura che ha conservato fino a oggi. Nel XIII secolo, Pietro II di Savoia fece costruire verso la terraferma tre torri semirotonde che garantivano il tiro di fiancheggiamento sulle cortine.
Nel  XIV e nel XV secolo questi torrioni vennero rinforzati e provvisti di apparato a sporgere per migliorare la difesa e di cammino di ronda protetto.



Tutto l’impegno profuso nei continui lavori di ammodernamento fu comunque ampiamente ripagato; l’inespugnabile castello costituì infatti un centro di controllo strategico sia del traffico lacustre, sia dell’importantissima strada litoranea verso l’Italia, sia infine della vasta rete di esazione dei dazi, che si irradiava per gran parte del cantone di Vaud.


LA RESIDENZA DEI SAVOIA – Il castello unisce la severità dell’esterno alla bellezza degli interni, particolarmente curati dai Savoia che ne fecero una delle loro residenze favorite fino a tutto il XV secolo. Numerose sono, infatti, le grandi sale di rappresentanza e gli appartamenti di abitazione, sontuosamente decorati da affreschi e da grandi camini.


LA CONQUISTA – Nel 1476 Chillon fu attaccata dalle truppe svizzere, ma riuscì a resistere. Tuttavia nel 1536 le milizie cernesi se ne impadronirono senza nemmeno combattere: la guarnigione, demoralizzata e disorganizzata per la situazione generale dello Stato sabaudo si ritirò senza opporre resistenza. Dopo la conquista, Chillon perse sempre più d’importanza. Dal 1536 al 1733 fu usata come residenza di vari signori locali, poi come deposito di armi e ospedale. Infine, grazie alla sua  solida struttura muraria, venne adibita a carcere.


Nel XIX secolo fu salvata in extremis dalla demolizione, che era stata decisa per utilizzare le sue storiche pietre allo scopo, ben più prosaico, di costruire la linea ferroviaria. Questo pericolo fu sventato grazie all’intervento deciso di un gruppo di deputati del cantone di Vaud, determinati a preservare un monumento storico così antico e importante, che risulta tra i più visitati della Svizzera.


DALLA SVIZZERA ALL’ITALIA – Tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento i Savoia, sotto la spinta dei confederati svizzeri, dovettero abbandonare le terre avite intorno ai laghi di Ginevra, e di Neuchàtel. La supremazia militare svizzera e il dilagare della Riforma protestante spezzarono il potere dei duchi su questo territorio.


Ciò spinse la famiglia, da Emanuele Filiberto in poi, a concentrarsi sul versante italiano, mantenendo al di là delle Alpi solo la Savoia e pochi altri territori. Il Seicento fu infatti un secolo di continue guerre sul fronte italiano, mentre quello svizzero rimase inerte.


I PRIGIONIERI DI CHILLON – La fortezza venne usata dai conti di Savoia anche come prigione di Stato. Il prigioniero più famoso fu François de Bonivard (1493 – 1570), che aveva spinto i ginevrini alla ribellione contro i Savoia. Fu liberato, dopo sei anni di reclusione, nel 1536, quando la fortezza fu conquisata dai cernesi.


La sua vicenda ispirò lo scrittore inglese George Byron, che ne trasse uno scritto “Il prigioniero di Chillon” (1816), abbastanza famoso ai sui temi. Nei locali adibiti a carcere, situati nella zona a lago, è ancora visibile il palo al quale Bonivard rimase incatenato per anni.


QUASI UN’ISOLA – Si entra nel castello percorrendo un ponte di legno risalente al Settecento. Il complesso, di forma ovale, è composto da numerosi edifici e da tre cortili racchiusi in un’unica cinta di mura.


La parte più interna della fortificazione, attorno al mastio centrale, venne costruita nell’XI secolo dai signori di Alinges, nobile famiglia vassalla della diocesi di Sion.
Nel palazzo baronale, conosciuto come Camera domini (o Tour d’Alinges) , sono ancora visibili tracce di affreschi risalenti al XIV secolo.


Anche le pareti di molti altri ambienti sono decorate con affreschi, numerosi dei quali riproducono la lotta di San Giorgio contro il drago, tema assai diffusa in area sabauda.
Particolarmente interessante è il soffitto ad archi della sala dei Cavalieri. La Salle du Chàtelain presenta un soffitto e un camino quattrocenteschi.
Nel settore del carcere sono conservate varie tracce dell’antica destinazione, tra cui anche una forca.

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