venerdì 10 dicembre 2010

Venerdì del libro: Voltaire (François Marie Arouet) - L’ingenuo

  “...il balivo gli domandò dove andasse. "A sposarmi" disse l'Ingenuo. [...] "Ma ci vogliono notai e preti, testimoni, contratti e dispense" diceva il balivo. L'Ingenuo gli rispose con la riflessione che i selvaggi hanno sempre fatto: "Siete dunque gente parecchio disonesta se vi ci vogliono tante precauzioni."  
 
- Eccomi al mio primo apuntamento con il Venerdì del libro....e mi sento un po' emozionata!!!
Il libro, cioè il racconto che desidero presentare fa parte della racolta di Voltaire e include Candido, Zadig, Micromega e L'ingenuo. Ma oggi vorrei parlare solo dell'Ingenuo, agl'altri racconti tornerò in qualche altro momento.


Questo romanzo di Voltaire ci presenta la storia di un selvaggio, indigeno americano, che viene catturato dagli inglesi e inizia ad essere da questi civilizzato, per poi trasferirsi a vivere in Francia presso un parente abate che scopre che "l'ingenuo" è suo nipote.
L'istanza più umoristica e al contempo pregna di significato è rappresentata dal confronto tra la sincera bontà e schiettezza dell'ingenuo e la sofisticata e immorale civiltà francese. Il primo scontro avviene quando l'ingenuo è convertito al cattolicesimo: egli, dotato di una memoria ferrea, impara perfettamente la bibbia, ma si accorge, non senza momenti umoristici, che l'insegnamento cattolico è molto lontano dai fatti narrati nel libro sacro (per esempio la circoncisione, il battesimo, il matrimonio, etc.). L'ingenuo si innamora di una giovane, e anche qui si instaurano forti situazioni di humor sui modi "rozzi" ma innocenti con cui l'ingenuo concepisce l'amore e il matrimonio.

Nella seconda parte del volume la narrazione assume un tono più mesto, e verso il finale accorato, perché l'innocenza e la concreta bontà dell'ingenuo si viene a scontrare con gli istinti più bassi della società francese: viaggia verso Parigi, e viene imprigionato in una oscura segreta per colpa di una serie di fraintendimenti, poi la giovane ragazza che lo ama viene a cercarlo, e scoprendo la sua prigionia, cerca in tutti i modi di liberarlo... fino a adottare, con somma contrizione, l'unico modo possibile: abbandonare la sua virtù e concedersi come amante ad un potente politico. Tutto continua tra felicità e dolore, fino ad un epilogo sconsolato.
Voltaire, attento critico della società in cui viveva, non lesina attacchi alla religione, alla falsa ipocrisia, al perbenismo di maniera. Quest'opera, che ci presenta il più mirabile affresco del "buon selvaggio", è al contempo un volume di protesta e di ammonimento, pieno di patos e ricco di significati.
 La lettura è scorrevole e può essere anche letto tutto d'un fiato...è fortemente ironico, con un'esplicita critica alla società francese, alle contraddizioni della religione con i suoi prelati corrotti e lussuriosi, ma più in generale compare la critica all'ingiustizia, la malvagità, l'incoerenza che governano le relazioni umane.


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I • COME IL PRIORE DELLA MADONNA DELLA MONTAGNA E LA SIGNORINA SUA SORELLA INCONTRARONO UN URONE  

Un giorno S. Dunstano, irlandese di nascita e santo di professione, partì dall'Irlanda su di una piccola montagna che fece rotta verso le coste della Francia, e arrivò con questo mezzo alla baia di St-Malo. Quando fu a terra dette la benedizione alla sua montagna che, fattagli una riverenza, se ne tornò in Irlanda per la stessa strada per cui era venuta.
Dunstano fondò un piccolo priorato in quelle contrade e gli dette il nome di priorato della Montagna, nome che, come ciascuno sa, conserva ancora.
Nell'anno 1689, il 15 luglio di sera, l'abate di Kerkabon, priore della Madonna della Montagna, passeggiava in riva al mare con la signorina di Kerkabon, sua sorella, per prendere il fresco. Il priore, già un po' avanti cogli anni, era un ottimo ecclesiastico amato dai suoi vicini, dopo esserlo stato un tempo dalle sue vicine. Ciò che soprattutto gli aveva valso una grande considerazione, era il fatto di essere il solo beneficiario del paese che non si dovesse portare a braccia nel suo letto dopo che aveva cenato coi suoi confratelli. Si intendeva discretamente di teologia; e quando era stanco di leggere S. Agostino, si divertiva con Rabelais; perciò tutti parlavano bene di lui.
La signorina di Kerkabon, che non era mai stata sposata, per quanto avesse avuto una gran voglia di esserlo, conservava una certa freschezza all'età di quarantacinque anni; il suo carattere era buono e sensibile; amava il piacere ed era devota.
Il priore diceva alla sorella, guardando il mare: «Ahimè! È qui che si imbarcò il nostro povero fratello con la nostra cara cognata, la signora di Kerkabon, sua moglie, sulla fregata l'Hirondelle, nel 1669, per andare a combattere in Canada. Se non fosse stato ucciso, potremmo sperare di rivederlo ancora.»
«Credete,» diceva la signorina di Kerkabon, «che la nostra cognata sia stata mangiata dagli Irochesi, come ci hanno raccontato? Certo che se non fosse stata mangiata sarebbe ritornata al paese. La rimpiangerò per tutta la vita: era una donna deliziosa; e nostro fratello, che aveva molto ingegno, avrebbe sicuramente fatto molta fortuna.»
Mentre l'uno e l'altra si intenerivano su questo ricordo, videro entrare nella baia di Rance un piccolo bastimento che arrivava con la marea: erano degli Inglesi che venivano a vendere alcune merci del loro paese. Saltarono a terra senza guardare il signor priore né la signorina sua sorella, che fu molto scandalizzata della scarsa attenzione che le veniva dimostrata.
Non così si comportò un giovane molto ben fatto, che si slanciò con un salto al di sopra della testa dei suoi compagni, e si trovò faccia a faccia colla signorina. Le fece un cenno colla testa, non avendo l'abitudine di fare la riverenza. La sua persona e il suo abbigliamento attrassero gli sguardi del fratello e della sorella. Era a testa e gambe nude, aveva i piedi calzati di piccoli sandali, la testa ornata da lunghi capelli a trecce, un farsetto che stringeva la vita sottile e snella; il portamento marziale e dolce al tempo stesso. Teneva in mano una boccettina di acqua delle Barbados e nell'altra una specie di borsa in cui c'era una ciotola e delle ottime gallette. Parlava francese in modo assai intelligibile.
Offrì un po' della sua acqua delle Barbados alla signorina di Kerkabon e al suo signor fratello; bevve con loro; gliene offrì di nuovo, e tutto questo con un'aria così semplice e così naturale che fratello e sorella ne rimasero incantati. Gli offrirono i loro servigi, domandandogli chi era e dove andava. Il giovane rispose che non ne sapeva nulla, che era curioso, che aveva voluto vedere come erano fatte le coste della Francia, che era venuto e presto se ne sarebbe tornato via.
Il signor priore, giudicando dal suo accento che non era inglese, si prese la libertà di domandargli di quale paese fosse. «Sono Urone,» gli rispose il giovane. La signorina di Kerkabon, stupita e incantata di vedere un Urone che le aveva rivolto delle cortesie, invitò il giovane a cena. Egli non si fece pregare due volte, e tutti e tre andarono insieme al priorato della Madonna della Montagna.
Piccola e rotonda, la signorina se lo mangiava coi suoi occhietti, e diceva di tanto in tanto al priore: «Quel ragazzone ha un incarnato di giglio e di rosa! che bella pelle ha, per essere un Urone!» «Avete ragione, sorella mia,» diceva il priore. La signorina faceva cento domande una dietro l'altra, e il viaggiatore rispondeva sempre molto a tono.
Ben presto si sparse la voce che c'era un Urone al priorato. La buona società dei dintorni si affrettò a venire a cena. L'abate di St-Yves venne colla signorina sua sorella, una giovane della Bassa-Bretagna, molto graziosa e ben educata. Il balivo, l'esattore delle imposte e le loro mogli parteciparono alla cena. Si fece sedere lo straniero tra la signorina di Kerkabon e la signorina di St-Yves. Tutti lo guardavano con ammirazione; gli parlavano e lo interrogavano tutti insieme; l'Urone non si scomponeva per questo. Sembrava aver preso per motto quello di Lord Bollingbroke: Nihil admirari. Ma alla fine, sopraffatto da tanto rumore, disse loro con alquanta dolcezza, ma non senza fermezza: «Signori, nel mio paese si parla uno alla volta; come volete che vi risponda se mi impedite di sentirvi?» La ragione fa sempre rientrare gli uomini in se stessi per qualche momento. Si fece un gran silenzio. Il balivo, che si impadroniva sempre degli stranieri in qualunque casa si trovasse, e che era il più grande chiacchierone della provincia, gli disse aprendo la bocca di un palmo: «Signore, come vi chiamate?» «Mi hanno sempre chiamato l'Ingenuo,» rispose l'Urone, «e questo nome mi è stato confermato in Inghilterra, perché dico sempre ingenuamente quello che penso così come faccio quello che voglio.»
«In che modo, essendo nato Urone, siete potuto, signore, giungere in Inghilterra?» «Mi ci hanno portato; sono stato fatto prigioniero in combattimento dagli Inglesi, dopo essermi difeso abbastanza bene, e gli Inglesi, cui piace il coraggio perché sono coraggiosi e onesti quanto noi, mi proposero di rendermi ai miei genitori o di portarmi in Inghilterra; io accettai l'ultima alternativa perché, per il mio temperamento, desidero ardentemente vedere nuovi paesi.»
«Ma, signore,» disse il balivo con tono imponente, «come avete potuto abbandonare così padre e madre?» «Il fatto è che non ho mai conosciuto né padre né madre,» disse lo straniero. La compagnia si intenerì, e tutti ripetevano: «Né padre né madre!» «Suppliremo noi,» disse la padrona di casa al fratello priore; «come è interessante questo signor Urone!» L'Ingenuo la ringraziò con una cordialità nobile e fiera, e le fece capire che non aveva bisogno di niente.
«Mi sembra, signor Ingenuo,» disse il valente balivo, «che voi parliate il francese meglio di quanto ci si aspetterebbe da un Urone.» «Un Francese,» rispose costui, «che avevamo fatto prigioniero durante la mia giovinezza in Uronia, e per il quale concepii una grande amicizia, mi insegnò la sua lingua; imparo molto in fretta ciò che voglio imparare. Ho trovato al mio arrivo a Plymouth uno di quei Francesi profughi che, non so perché, chiamate ugonotti; mi ha fatto fare qualche progresso nella conoscenza della vostra lingua; e, non appena ho potuto esprimermi in modo intelligibile, sono venuto a vedere il vostro paese, perché mi piacciono i Francesi quando non fanno troppe domande.»
L'abate di St-Yves, nonostante questo discreto avvertimento, domandò quale lingua preferisse tra l'urone, l'inglese e il francese. «L'urone, senza dubbio,» rispose l'Ingenuo. «Possibile?» esclamò la signorina di Kerkabon; «avevo sempre pensato che il francese fosse la più bella di tutte le lingue, dopo il basso-bretone.»
Allora fu un fioccar di domande da ogni parte, come si diceva in urone tabacco, ed egli rispose taya, come si diceva mangiare e rispose essenten. La signorina di Kerkabon volle assolutamente sapere come si diceva fare all'amore; egli rispose trovander, e sostenne, non senza un'apparenza di ragione, che queste parole valevano le corrispondenti francesi e inglesi. Trovander sembrò molto grazioso a tutti i convitati. Il priore, che aveva nella sua biblioteca una grammatica urona, dono del reverendo padre Sagard-Théodat, re colletto, famoso missionario, si alzò da tavola un momento per andarla a consultare. Ritornò pieno di eccitazione e di gioia. Riconobbe l'Ingenuo per un vero Urone. Si discusse un poco sulla molteplicità delle lingue e si convenne che, senza l'avventura della torre di Babele, tutta la terra avrebbe parlato francese.
Il curioso balivo, che fino ad allora aveva un po' diffidato del personaggio, concepì per lui un profondo rispetto; gli parlò con maggiore civiltà, cosa di cui l'Ingenuo non si accorse affatto.
La signorina di St-Yves era molto curiosa di sapere come si facesse l'amore nel paese degli Uroni. «Facendo belle azioni per piacere alle persone che vi somigliano,» rispose lui. Tutti i convitati applaudirono meravigliati. La signorina di St-Yves arrossì e fu molto contenta. La signorina di Kerkabon arrossì anche lei, ma non era altrettanto contenta; fu anzi un po' irritata per il fatto che la galanteria non era rivolta a lei, ma era d'altra parte di animo così buono che il suo affetto per l'Urone non ne fu affatto alterato. Gli domandò anzi, con molta buonagrazia, quante amanti avesse avuto in Uronia. «Non ne ho avuto che una,» disse l'Ingenuo; «era la signorina Abacaba, l'amica della mia cara nutrice; i giunchi non sono più diritti, l'ermellino non è più bianco, le pecore sono meno morbide, le aquile sono meno fiere e i cervi meno agili di quanto lo fosse Abacaba. Un giorno inseguiva una lepre nei dintorni, a circa cinquanta leghe dalla nostra abitazione. Un Algonchino maleducato, che abitava cento leghe più lontano, venne a sottrarle la preda; lo seppi, corsi là, stesi l'Algonchino con un colpo di mazza e lo portai ai piedi della mia amante, legato mani e piedi. I genitori di Abacaba lo volevano mangiare, ma io non ho mai apprezzato questa sorta di festini; gli resi la libertà e ne feci un amico.
Abacaba fu così toccata dalla mia condotta che mi preferì a tutti i suoi pretendenti. Mi amerebbe ancora se non fosse stata mangiata da un orso. Ho punito l'orso, ho portato a lungo la sua pelle, ma tutto ciò non mi ha consolato.»
La signorina di St-Yves a questo racconto provava un piacere segreto nell'apprendere che l'Ingenuo non aveva avuto che una sola amante, e che Abacaba non era più; ma non era in grado di chiarire a se stessa la causa del suo piacere. Tutti avevano gli occhi fissi sull'Ingenuo; lo lodavano molto per aver impedito ai suoi compagni di mangiare l'Algonchino.
L'inesorabile balivo, che non poteva reprimere la sua smania di far domande, spinse infine la sua curiosità fino ad informarsi di quale religione fosse l'Urone; se aveva scelto la religione anglicana, o la gallicana, o l'ugonotta.
«Appartengo alla mia religione,» disse lui, «come voi alla vostra.» «Ohimè!» esclamò la Kerkabon, «mi accorgo che quei disgraziati di Inglesi non hanno neppure pensato a battezzarlo.» «Mio Dio!» diceva la signorina di St-Yves, «come è possibile che gli Uroni non siano cattolici? Forse i RRPP gesuiti non li hanno ancora convertiti tutti?» L'Ingenuo le assicurò che nel suo paese non si convertiva nessuno; che mai un vero Urone aveva cambiato opinione, e che addirittura non esisteva nella sua lingua un termine che significasse incostanza. Queste ultime parole piacquero molto alla signorina di St-Yves.
«Lo battezzeremo, lo battezzeremo,» diceva la Kerkabon al priore; «l'onore sarà vostro, mio caro fratello; voglio assolutamente essere la madrina; il signor abate di St-Yves lo presenterà al fonte: sarà una magnifica cerimonia; se ne parlerà in tutta la Bassa-Bretagna e a noi ne verrà un onore infinito.» Tutta la compagnia assecondò la padrona di casa; tutti i convitati gridavano: «Lo battezzeremo!» L'Ingenuo rispose che in Inghilterra si lasciava vivere la gente a modo suo. Precisò che la proposta non gli piaceva per nulla, e che le leggi degli Uroni valevano almeno quanto quelle della Bassa-Bretagna; e per finire disse che sarebbe ripartito l'indomani i convitati bevvero tutta la sua bottiglia di acqua delle Barbados e poi ciascuno andò a dormire.
Dopo che l'Ingenuo fu ricondotto nella sua camera, la signorina di Kerkabon e la sua amica, la signorina di St- Yves, non poterono trattenersi dal guardare dal buco di un'ampia serratura per vedere come dormiva un Urone. Videro che aveva steso la coperta del letto sul pavimento, e che riposava nell'atteggiamento più bello che si potesse immaginare.


Altre proposte del Venerdì del libro:

fine del I capitolo...

3 commenti:

Federica ha detto...

Altro post molto interessante e poi Voltaire è una delle personalità che più ammiro e apprezzo. Uomo moderno rispetto all'epoca in cui viveva, le cui idee sono ancora oggi vive!
Ciao Federica

Eri ha detto...

Sono d'accordo, è sempre piacevole leggere Voltaire; complimenti per il ricco post, a presto, ciao!

la giraffa e la papera ha detto...

mmm . . . molto interessante! Ora che ho scoperto il tuo blog, verrò spessissimo!

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