lunedì 28 febbraio 2011

Palazzo d’Inverno


Un totale di 1 050 stanze per un’arca complessiva di 4,6 ettari, 1 945 finestre, 1 886 porte e 116 gradini: dati che da soli, possono già dare un’idea delle dimensioni gigantesche del palazzo. La residenza barocca degli zar russi, che può essere definita come un immenso monumento al potere, proprio per la sua ampiezza è il luogo ideale per ospitare la vasta e incomparabile collezione di opere del museo dell’Hermitage.



La facciata nord del Palazzo d’Inverno si specchia nelle acque della Neva. Le colonne sovrapposte, disposte in fila di due, creano su questo lato un movimento di rottura, ma anche di uniformità, grazie alla loro sequenza regolare. Anche nel realizzare la facciata al sud – intesa come l’ingresso principale per chi proviene dalla corte principale – l’architetto Bartolomeo Rastrelli tenne in considerazione l’effetto visivo da un certa distanza. Le facciate est e ovest, con le loro numerose finestre e cornici riccamente decorate, sono, invece, piuttosto differenti.


Nonostante le quattro ali, che delimitano una piazza centrale rettangolare, siano tutte molto diverse tra loro, il Palazzo d’Inverno appare nel suo complesso, omogeneo e armonico. Ciò perchè Rastrelli conservò degli elementi comuni e unificanti, come le colonne in due ordini sovrapposti che spezzano le facciate e il tetto baluastro, adorno di numerose statue.



Nonostante l’avvio dei lavori risalga al 1711, le attività di costruzione iniziarono realmente solo nel 1754, quando Elisabetta I, figlia di Pietro il Grande, diede la sua approvazione allo studio di Rastrelli, l’unico che piacque veramente all’imperatrice.



Questi (1700 – 1771), con i suoi numerosi progetti, lasciò un impronta artistica notevole a San Pietroburgo, senza, tuttavia, portare a termine questa sua ultima ed epocale impresa. Di conseguenza, le decorazioni interne del palazzo sono opere di numerosi architetti ingaggiati da Caterina II (1729 – 96): Vallin de la Mothes, Antonio Rinaldi, Jurij Felten, Giacomo Quarenghi, Carlo Rossi, Vassilij Stassov, Auguste Montferrand furono i grandi nomi che contribuirono a completare gli interni.



La scala detta di Jordan è una splendida costruzione in marmo bianco con stucchi dorati e specchi. Al primo piano alcune stanze mantengono ancora le loro decorazioni originali, come la Sala delle Armi, la più ampia di tutto il complesso, che con la sua area di 1 103 metri quadrati, costituiva il luogo ideale per lussuosi banchetti e ricevimenti.




Tuttavia, la più famosa e sfarzosa è la Sala di Malachite, progettata da Alexander Brjullov nel 1837, dopo il terribile incendio che devastò il palazzo. Colonne in malachite verde, porte dorate, capitelli, un soffitto riccamente fregiato, pesanti tendaggi rossi ed enormi specchi simboleggiano lo splendore  e la magnificenza degli zar.


L’adiacente Sala Bianca ha invece un significato storico di fondamentale importanza, poiché qui, nella notte tra il 8 e il  novembre, le Guardie Rosse, guidate da Lenin, stabilirono la sede del Governo Civile Provvisorio, lo stesso che avrebbe costretto Nicola II ad abdicare.



A causa delle dimensioni imponenti del palazzo, gli zar preferivano occupare le loro residenze estive, più piccole e vivibili; di conseguenza, molte stanze furono utilizzate fin dall’inizio per conservare i numerosi tesori della dinastia reale. Dal 1917, inoltre, l’edificio, insieme alle costruzioni adiacenti (il Piccolo Hermitage, il Nuovo Hermitage e il Grande Hermitage), ospita le collezioni del famoso museo ed è spesso difficile, per il visitatore di oggi, giudicare se le opere esibite o le sale stesse del palazzo siano più spettacolari e impressionanti.


L’HERMITAGE – Il famoso museo di San Pietroburgo è considerato uno dei maggiori al mondo, insieme al Louvre di Parigi, il British Museum di Londra e il Metropolitan Museum of Art di New York.
Con le sue 400 sale espositive, l’Hermitage contiene la bellezza di 2,7 milioni di opere d’arte: l’ex direttore del museo, Piotrovskji, ha calcolato che osservando per almeno 30 secondi ogni pezzo esposto per otto ore al giorno, il tour completto del museo durerebbe più di sette anni. Ma viene spontaneo chiedersi: in che modo una tale quantità di tesori è stata raccolta e conservata? Pietro il Grande gettò le basi di questa immensa collezione acquisendo la proprietà di tutti reperti archeologici che vennero rinvenuti a San Pietroburgo a partire dal suo regno. Sua figlia, Elisabetta I continuò sulla stessa strada, ma la vera collezionista d’arte fu Caterina II, che acquistò ben 225  capolavori fiamminghi da un commerciante d’arte berlinese nel 1764, anno a cui si fa risalire la nascita del museo.


Caterina,  approfittando delle difficoltà economiche di molte famiglie aristocratiche europee, acquistò opere di valore inestimabile a prezzi davvero vantaggiosi. Dopo 10 anni di regno, i quadri in suo possesso erano già oltre 2 000. Anche Alessandro I e Nicola I diedero il loro contributo alla collezione e, nel 1852, il Nuovo Hermitage fu aperto al pubblico. La galleria risentì non poco anche delle conseguenze della Rivoluzione d’Ottobre, dal momento che le collezioni private appartenute alle varie famiglie aristocratiche furono confiscate come “proprietà del Popolo” e donate all’Hermitage. Fu così che il patrimonio del museo quadruplicò. Alcuni anni dopo, tuttavia, un gran numero di importanti opere fu venduto all’estero.



domenica 27 febbraio 2011

Olimpia – Il culto e i giochi


Adagiato sulle pendici del monte Cronio, nel cuore dell’Elide, il santuario di Olimpia sorge in un luogo di intensa bellezza – che i Greci chiamavano Altis (“bosco sacro”), in cui è possibile cogliere – tra le rovine dei suoi monumenti dedicati agli dèi – quel profondo rapporto che nell’antichità intercorreva fra la natura, il divino e l’umano.


Di origini molto antiche, secondo la tradizione il santuario apparteneva al regno miceneo della città di Pisa, retto dal re Enomao, leggendario fondatore dei giochi in onore di Zeus. Enomao venne sfidato dal lidio Pelope nella corsa dei carri; il vincitore avrebbe ricevuto in sposa, come premio, la figlia del re Ippodamia. La possibilità che Enomao potesse vincere era alquanto remota, poiché il re gareggiava con i cavalli donatigli dal padre Ares, il dio della guerra.



Una versione del mito narra di come Pelope avrebbe corrotto l’auriga di Enomao, Mirtilo, il quale avrebbe sostituito con perni di cera quelli in bronzo delle ruote del carro del re. Fu così che Enomao non solo perse la gara, ma morì travolto dai propri cavalli. Pelope, divenuto il re di Pisa, estese il dominio a tutta la regione, che da lui prese così nome di Peloponneso (l’”isola di Pelope”). Un’altra tradizione attribuisce a Eracle, eroe dorico, l’introduzione dei giochi olimpici. In ogni caso le entrambe le leggende sono ben presenti nell’immaginario figurativo e monumentale del santuario, confluendo nel programma della decorazione scultorea del grande tempio di Zeus di età classica.



L’ingresso del santuario arcaico (VII secolo a. C.) è segnato da una ricchissima presenza di ex voto in bronzo e in terracotta (statuette, vasi, tripodi splendidamente decorati) e dall’istituzione di una periodicità quadriennale per i giochi, iniziati nel 776 a. C., che rappresenterà l’unico criterio riconosciuto da tutti i Greci per calcolare il tempo. È questo il momento in cui le aristocrazie delle regione – e sempre più nel corso dei secoli dell’intero mondo greco e coloniale – dedicano i più splendidi oggetti della produzione arcaica (in particolare bronzei) per celebrare le vittorie ottenute nelle competizioni panelleniche. I giochi divennero così un preciso veicolo di propaganda, vera e propria vetrina per affermare il proprio prestigio nell’orizzonte politico mediterraneo.




Bisognerà in ogni caso attendere il VI secolo per assistere alla monumentalizzazione del santuario.  Oltre alla realizzazione della prima fase dello stadio, nel 600 circa a. C. risale la costruzione del più antico edificio templare, l’Heraion, dotato di colonne doriche lingee poggianti su uno zoccolo in pietra, con l’alzato ancora in mattoni crudi.  Il vetusto edificio continuò per secoli a essere utilizzato come luogo in cui conservare doni votivi, come la celeberrima “arca di Cipselo”, che lo scrittore Pausania (II secolo) ci descrive come preziosissima cassa in legno, oro e avorio, decorata a sbalzo con scene di complessi cicli mitologici e dedicata dal tiranno di Corinto Cipselo.



Nella cella del tempio si potevano ammirare numerose statue di divinità, oltre alle immagini di culto raffiguranti Zeus e la moglie Era, seduta, per la quale veniva tessuta una sontuosa veste ogni cinque anni da ben sedici donne.


Un eccezionale ritrovamento archeologico avvenuto all’interno del tempio è la statua marmorea di Ermes, con in braccio Dioniso fanciullo, rinvenuta nel punto in cui Pausania l’aveva vista ( e che attribuisce allo scultore Prassitele).


Nel corso del VI secolo, oltre alla costruzione dello stadio, assistiamo al nascere di una serie impressionante di edifici sacri, i “thesauròi” dedicati dalle diverse “poleis” del mondo greco.  Questi sorgevano su una terrazza e, tra gli altri, spiccavano quelli delle ricche colonie del mondo greco d’Occidente (Gela, Metaponto, Sibari, Selinunte, Megera Iblea, Siracusa).



L’altro grande momento che caratterizza l’attività edilizia del santuario corrispose al periodo successivo alla vittoria dei Greci sui Persiani, che ebbe come conseguenza una formidabile concentrazione di dediche e di monumenti votivi, realizzati nel segno della celebrazione della gloria delle “poleis” greche. Alleata ad Atene, di cui adotta l’ordinamento democratico, l’Elide raggiunge in questo momento la supremazia politica nella regione, la cui celebrazione venne affidata alla costruzione del tempio di Zeus (parte I e parte II) in stile dorico, iniziato nel 472 e terminato nel 430 a. C. Di straordinario interesse si rivela la decorazione architettonica dell’edificio, conservata in ottimo stato nel museo locale, mentre la statua di culto è oggi perduta.




 La realizzazione del simulacro di culto si deve a Fidia, i resti della cui officina sono ampiamente conservati nei presi del tempio. Si trattava – come ci narra Pausania – di un colosso criselefantino (in oro e avorio) alto quasi 12 metri, che rappresentava il padre degli dèi seduto su un trono riccamente decorato da scene mitologiche, con una Nike nella mano destra e uno scettro nella sinistra.



Fra i più grandi capolavori dello stile severo – le sculture frontali e le metope che rappresentano le dodici fatiche di Eracle – furono realizzate negli anni 470 – 460 a. C. da un maestro a noi ignoto.




Il frontone principale, quello orientale, raffigura il momento che precede la corsa che avrebbe deciso i destini, umani e insieme politici, di Olimpia: al centro domina la scena Zeus, colui che può decidere l’esito della competizione, le sorti stesse del santuario, la vita intera degli uomini. Alla sua destra, sono il vecchio re Enomao, barbato, e la moglie Sterpe, in atteggiamento angosciato, seguiti da un’ancella in ginocchio, da due indovini e dalla personificazione di uno dei fiumi che bagnano il santuario, il Cladeo. Ma Zeus volgeva il capo (oggi perduto) dalla parte opposta, a sinistra, indicando il vincitore: Pelope, che ha accanto la futura moglie Ippodamia (con il velo nuziale), poi la quadriga con due inservienti, un indovino, la personificazione dell’altro fiume di Olimpia, l’Alfeo.



Il frontone occidentale narar il tema delle nozze di Piritoo, re del popolo dei Lapiti, durante le quali i Centauri, ubriachi, tentano di rapire le donne. Figura centrale è Apollo (ancora una volta una divinità che regge le sorti dello scontro; favorevole a Piritoo che, aiutato dall’amico Teseo, riuscirà a scacciare i Centauri dal banchetto). In questa scena si rappresenta la vittoria del mondo civile, della religione olimpica, della ragione e della legge sul mondo ferino e barbarico impersonato dai Centauri, figure a metà strada fra i uomini e animali. Più che trasparente si rivela dunque il messaggio politico alla base della realizzazione di questi straordinari prodotti dell’arte greca.



Il santuario di Olimpia conserva i resti di altri numerosi e importanti edifici. Dopo le ultime realizzazioni del V secolo a. C., gli anni seguenti videro il rifacimento del Pelòpion, recinto poligonale identificabile con l’”heròon”, la tomba di Pelope erotizzato, e l’edificazione di alcune “stoài”,



del Bouleutèrion,


di un gigantesco albergo per gli ospiti del santuario (detto Leonidàion),



 del Metròon (il tempio dedicato a Rea, la madre degli dèi)




e del Philippèion, l’heròon dedicato alla dinastia macedone, Filippo II (dal 338 a. C. nuova padrona della Grecia).


In età ellenistica sorsero una grande palestra e un ginnasio, mentre le testimonianze di età romana si mostrano di grandissimo rilievo. Oltre a cospicui interventi di restauri degli edifici più antichi (il Metròon viene adattato a tempio del culto imperiale), si moltiplicano le residenze private e le terme. In età antonina viene eretto uno spettacolare ninfeo sulla terrazza dei “thesaurò”: il Ninfeo di Erode Attico, voluto da uno dei più celebri e ricchi uomini politici della Grecia imperiale.    



Dopo aver retto all’invasione degli Eruli, nel 267 d. C., il santuario subirà i danni di un terremoto, per venire definitivamente chiuso dall’editto di Teodosio che nel 392 d. C., proibirà la celebrazione dei giochi olimpici, che si terranno per l’ultima volta l’anno seguente.


venerdì 25 febbraio 2011

Palazzo Vecchio – Simbolo del Comune di Firenze


Palazzo Vecchio è stato per secoli il simbolo del Comune fiorentino, una delle grandi potenze medievali europee. Reggia cittadina dei granduchi di Toscana, è ora la sede del Municipio di Firenze. Nelle sue mura è racchiusa la storia toscana, e buona parte di quella italiana: un concentrato d’arte e di testimonianze politiche.



UN PALAZZO PER IL GOVERNO DELLA REPUBBLICA FIORENTINA – L’edificio fu eretto tra il 1299 e il 1314, su progetto del celebre architetto Arnolfo di Cambio, come palazzo dei Priori, i sei capi delle corporazioni che assieme ai gonfalonieri di giustizia, i magistrati a tutela dei diritti del popolo, amministravano la Repubblica fiorentina. Essi restavano in carica solo due mesi, durante i quali dovevano fermarsi giorno e notte nel palazzo, sotto la sorveglianza di soldati armati, in modo che nessuno potesse influenzarne le decisioni, corrompendoli o esercitando violenza o minacce. Successivamente il governo cittadino, e quindi anche la sua sede, prese il nome di Signoria. Assunse il nome di Palazzo Vecchio quando i Medici si trasferirono a palazzo Pitti. Lo schema è quello tipico degli edifici pubblici dell’Italia centrale, con una struttura a blocco sovrastata da una snella torre (ben 94 metri di altezza), in questo caso curiosamente a sbalzo sulle merlature del palazzo. Ma eccezionale, e unica, è l’armonia d’insieme.



SAVONAROLA E MACHIAVELLI – Nel 1495 il predicatore Savonarola trasformò per breve tempo la Repubblica fiorentina, da decenni governata dai Medici: sia pur mantenendo formalmente intatte le strutture repubblicane, ne fece uno stato ‘integralista’, permeato da profonde istanze religiose e morali. Per il neoeletto parlamento egli fece costruire da Antonio da Sangallo il gigantesco “salone dei Cinquecento”. Ma la sua creazione politica ebbe vita effimera. Tre anni più tardi, nel 1498, il frate fu infatti impiccato e bruciato davanti a Palazzo Vecchio.



Negli anni successivi fu segretario della Repubblica fiorentina un uomo destinato a imperitura fama, Niccolò Machiavelli (1469 – 1527). Fu l’autore del controverso libro “Il principe”, considerato, a torto, come un elogio della politica senza scrupoli. L’opera era, in realtà, sia una fredda presa d’atto dell’autonomia morale della politica, sia una accorata opera di fede nei valori fondanti dello Stato.



PALAZZO DUCALE – All’inizio del Cinquecento l’imperatore Carlo V pose fine con la forza all’esperimento della Repubblica fiorentina. E nel 1531 tornarono i Medici, legittimati del nuovo titolo granducale ottenuto dall’imperatore. Da quel momento il palazzo dei Priori si chiamò Ducale e il salone dei Cinquecento accolse su una tribuna sopraelevata il trono del duca, Cosimo I, prima che la dimora dei Medici si trasferisse a palazzo Pitti, nel 1565. Dopo aver ospitato le sedute del parlamento italiano fra il 1865 e il 1872, il palazzo fu ceduto alla città di Firenze come sede del Municipio fiorentino, funzione che svolge tuttora.


UN CASTELLO REPUBBLICANO – I nobili avevano i loro castelli nelle campagne. Più tardi i signori cittadini costruirono imponenti edifici a cavallo delle mura urbiche. Il popolo, durante l’epoca comunale ebbe il palazzo pubblico: il castello delle istituzioni repubblicane. E proprio come un castello era concepito, con coronamento merlato, una torre di difesa e di controllo sull’abitato, ampie sale al primo piano per ricevere i visitatori importanti, riunire gli organi di governo, raccogliere le opere d’arte che davano prestigio al Comune. I palazzi pubblici dell’Italia settentrionale avevano di solito il pianterreno aperto, così da consentire la riunione dei cittadini anche in caso di cattivo tempo. Quelli dell’Italia centrale preferivano invece i palazzi chiusi.



 LA FAMIGLIA MEDICI – All’inizio del Quattrocento i Medici, banchieri fiorentini da generazioni, avevano messo da parte enormi ricchezze come amministratori delle finanze papali. Partendo da questa base, e dal favore popolare che li circondava, si impegnarono sempre più nella lotta politica. Giovanni de’ Medici ricoprì la carica di gonfaloniere, e suo figlio Cosimo il Vecchio arrivò, di fatto, a governare in modo assoluto la repubblica. I Medici furono tra i massimi esponenti del mecenatismo come strumento politico, e investirono in opere d’arte molte delle ricchezze accumulate. Divennero una delle famiglie più potenti d’Europa: il figlio di Lorenzo, Giovanni, e suo nipote Giulio furono eletti papi, con i nomi di Leone X e Clemente VII. La pronipote di Lorenzo, Caterina, sposò il re di Francia Enrico II e fu madre di tre sovrani. Cacciati da Firenze durante la repubblica di Savonarola, vi ritornarono trionfalmente nel 1531 nominati duchi di Toscana. Cosimo I, mostrò ancora una volta tutto il splendore della dinastia. A questo periodo risalgono molti lavori e cambiamenti del palazzo.


BELLEZZA IN MOSTRA – In piazza della Signoria sono collocati, all’aperto o sotto la loggia dei Lanzi, alcuni dei più grandi capolavori scultorei rinascimentali, dal “David” di Michelangelo al “Perseo” di Benvenuto Cellini, al “Ratto delle Sabine” del Giambologna, al “Marzocco” (il leone con scudo gigliato, tra i simboli di Firenze) di Donatello. Alcune statue sono copie, ma l’eccezionale insieme testimonia l’amore per la bellezza tipico della cultura fiorentina.




Nel 1574 il cortile interno del palazzo fu completamente ridecorato per il matrimonio di Francesco I de’ Medici con Giovanna d’Austria.


Il “salone dei Cinquecento” fu costruito nel 1495 per il nuovo parlamento repubblicano e poi rimaneggiato sotto Cosimo I. sia gli affreschi che la scalinata del palazzo si devono a Giorgio Vasari (1511 – 1574).



Lo “studiolo di Francesco I”, privo di finestre, era nato come laboratorio per esperimenti cimici.



Di particolare effetto, al secondo piano, la “sala dei Gigli”, con un bel soffitto a cassettoni del Quattrocento decorato a gigli d’oro su fondo azzurro.
Le stanze di Eleonora da Toledo, prima moglie di Cosimo I, sono riccamente ornate con dipinti.



Una lapide infissa nell’impianto della piazza della Signoria segna tuttora il luogo preciso del rogo su cui fu bruciato Girolamo Savonarola. Nelle immediate vicinanze si trova, per ironico e forse non voluto contrappasso, anche la statua equestre di Cosimo I.


Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...